Il varietà televisivo italiano resta lui, il volto della tv generalista resta lui: Pippo Baudo. Anche se adesso non c’è più. Esempio di professionalità e di mestiere, mai fu tentato dalle contaminazioni fra generi. Per lui un cantante doveva cantare, un presentatore presentare.

Pippo Baudo nasce a Militello, provincia di Catania, nel 1936, segno dei Gemelli. Si laurea in giurisprudenza, ma vuole fare l’attore. Debutta nella compagnia di Turi Ferro. Va a Roma, esordisce in tv nel 1960 con «La guida degli emigranti». Il primo successo arriva con «Settevoci». Diventa popolare e conduce molti grandi varietà, da «Canzonissima» a «Fantastico» alle 13 edizioni del Festival di Sanremo: l’ultima nel 2008, più di Mike Bongiorno che ne ha presentate undici. E con il Festival finisce per identificarsi. Ha due figli e una ex moglie, Katia Ricciarelli, con la quale si sposa nel 1986 circondato da immenso clamore.

Nell’87, al termine della settima edizione di «Fantastico», lascia la Rai dopo una polemica con iI presidente Enrico Manca che lo accusa di realizzare trasmissioni «nazionalpopolari». Passa alla Fininvest, non si trova bene, rientra alla Rai, per pagare la penale vende la casa. Lavorerà ancora per Mediaset, ma è alla Rai che approda sempre.

Nel 1987 la conferenza stampa in cui Silvio Berlusconi annunciava il passaggio in Mediaset di Pippo Baudo e Raffaella Carrà

 

Tra un litigio e l’altro. Da ultimo peraltro litigava molto meno, piuttosto si augurava la pace, come fece la vigilia di Natale di qualche anno fa nel programma di Caterina Balivo «Vieni da me»: pace tra Heather Parisi e Lorella Cuccarini, entrambe sue creature. «Le ho inventate io!», come dice lo slogan: «Siamo a Natale – esortò – voglio bene a tutte e due e non ho capito i motivi della rivalità. Siamo vecchi, vogliamoci bene, abbracciatevi! Il rancore deve passare, non ha nessun senso. Bisogna ricordare le parti migliori della vita, non le peggiori».

Lui che era notoriamente fumantino, e il suo io bello grosso ce l’aveva eccome. Quando morì Andreotti, che spesso andava alle sue trasmissioni, raccontò un aneddoto: «Sean Connery doveva venire ospite in un mio programma. E la moglie gli chiese: ma è importante questo Baudo? E Connery: è importante come Andreotti».

Le sue tredici edizioni del Festival di Sanremo erano una più lunga dell’altra, con tanto di Dopofestival che scolorava all’alba di «Unomattina». E intanto Pippo Baudo si trasforma in Pippobaudo, come gli disse Jovanotti: «Sei diventato un aggettivo». Pippobaudo ha inventato lo slogan «perché Sanremo è Sanremo», e pure l’accoppiata valletta bionda-valletta bruna.

Lui arrivava, sembrava un hidalgo, un grande di Spagna e di Sicilia che squadra le forze in campo. Potevate scommetterci, che con lui alla conduzione, capitava sempre qualcosa. Intendiamoci, il Festival di Sanremo è regolarmente un pretesto per lo svolgersi di altri accadimenti che con la musica e la sua centralità, ogni anno evocata e nello stesso tempo evitata, non hanno niente a che fare. Ma con Baudo all’Ariston, com’è come non è, il patto con l’adrenalina era assicurato.

E una volta quel poveretto voleva buttarsi giù dalla galleria del teatro, e lui, salvifico, lo fermava; e un’altra volta gli operai venivano chiamati a protestare in diretta contro la chiusura di una fabbrica, tra una canzone e l’altra; un’altra ancora tale Mario Appignani, detto Cavallo pazzo, irrompeva sul palco per dire che il Festival era truccato.

Per non dimenticare il FestivalBaudo 2002, Roberto Benigni ospite. Giuliano Ferrara promette che gli tirerà le uova marce. Fibrillazioni politiche. Alla fine Ferrara tira uova marce al televisore; si sospetta che i due, Baudo e Ferrara, si fossero messi d’accordo per fare «rumors». Lo stesso anno di Benigni, arriva pure Fiorello, che saluta Super Pippo con una bella fleppata proprio lì, sugli attributi. Apriti cielo. Tutti criticano, ma, soprattutto, rifanno il gesto. Per un po’, gli uomini si salutano strizzandosi le palle. Con Luciana Littizzetto, che non si è mai pentita, si baceranno sulla bocca.

Fughe da Rai, fughe da Mediaset. Disse: «A un certo punto sono diventato un personaggio ingestibile. E d’altronde, arrivato alla mia età, con il mio passato, che cosa mi resta se non l’autonomia?». Ma negli ultimi tempi Baudo pensava di più alle sue origini. Raccontava, poco tempo fa: «Quando arrivo a Militello, i primi giorni faccio fatica, è dura staccare. Poi precipito in una specie di limbo, e mi ci trovo benissimo. Adesso che ho raggiunto un’età rispettabile, ho bisogno di rivedere i posti della mia infanzia, di riascoltare lo stesso dialetto. Una volta non mi piaceva, il dialetto, ora lo apprezzo molto. Perché ha un’intensità, uno spessore linguistico che l’italiano spesso non riesce a raggiungere. Io non lo so parlare, però capisco tutto, naturalmente. Non l’ho mai parlato perché ho sempre aspirato a questo mestiere, fin da ragazzo volevo lavorare nello spettacolo. E trovavo che il dialetto fosse un ostacolo: anzi, lo era veramente. Al primo provino che feci alla Rai, Antonello Falqui mi disse che i siciliani non sapevano parlare l’italiano. Me lo ripeteva anche Salvo Randone, il grande attore. Lui era siracusano, e ricordava che, per dare forza a quello che si diceva, bisognava pensare in dialetto, e poi tradurre in italiano».