Una celebre immagine di una piccola vittima raccolta sulla spiaggia di Vergarolla dopo l’attentato – Archivio
«Zelesco Edmondo d’anni 6». È lui in ordine alfabetico sui giornali l’ultimo dei corpi identificati, smembrati dall’esplosione di 28 grandi ordigni scoppiati sulla spiaggia di Vergarolla, a Pola, la domenica del 18 agosto 1946, poco dopo le 14. È una domenica affollata di famiglie al completo, naturalmente italiane (allora Pola è ancora Italia, e la città è abitata per il 90% da italiani). Su quella spiaggia è in corso una giornata di gare nautiche organizzate dalla società Pietas Julia, una manifestazione di stampo patriottico con la quale la popolazione intende gridare alle grandi potenze, riunite a Parigi per la Conferenza di pace, che la città è – e vuole restare – italiana. Da un anno e mezzo la seconda guerra mondiale è finita, nel maggio del ’45 in tutta Europa folle oceaniche di cittadini festanti avevano accolto a braccia aperte gli eserciti liberatori e la fine dell’incubo nazifascista, ma qui la storia ha preso una strada diversa: La guerra in Italia è finita, aveva titolato “Il Popolo” il primo maggio del 1945 ma, subito sotto, il catenaccio profetizzava: Inquietudine del popolo italiano per la sorte di Trieste e Pola, le città in cui i “liberatori” erano le truppe del maresciallo jugoslavo Tito, determinate a occupare, non a liberare. Decise a una nuova guerra di annessione, non a una pace. A imporre una nuova dittatura, non la democrazia.
Torniamo allora al 18 agosto 1946. Quei 28 ordigni, che giacciono lì fin dai tempi della guerra ma che sono stati disattivati, dunque innocui, esplodono nell’ora della siesta: molti bambini ci stanno giocando a cavalcioni (come accadeva da mesi), le famiglie riposano nella pineta, qualcuno grazie al Cielo è in barca e da lì vede tutto. In un istante oltre cento persone (un terzo sono bambini) vanno in pezzi, tutta Pola sobbalza come per un terremoto, i vetri si frantumano, una colonna di fumo si allarga a fungo nel cielo, polvere e sassi ripiombano sulla folla attonita, i gabbiani si avventano impazziti sul mare rosso a mangiare. Mani esperte prima dell’alba hanno riattivato gli esplosivi e alla fine le vittime identificate saranno solo 65, di decine di altri morti i resti saranno raccolti in bare collettive, di altri ancora non resterà più nulla, evaporati, come per l’atomica (tra questi il piccolo Renzo, figlio del medico eroe Geppino Micheletti, che nell’attentato perse i suoi due bambini ma continuò ad operare le centinaia di feriti. Quest’anno il presidente Mattarella gli ha conferito la medaglia d’oro al Merito della Sanità pubblica). Vergarolla è la prima strage terroristica della Repubblica Italiana, e la più sanguinosa, ma fu sepolta nel silenzio e non ebbe mai un processo. “Avvenire” negli anni ha rintracciato testimoni e racconti inediti, ha anche dato un volto al protagonista della celeberrima foto-simbolo, quella del soccorritore che corre portando tra le mani una bimba decapitata. Così pian piano la verità sta riemergendo.
Ricco di nuove voci e testimonianze è ora il documentario-inchiesta Vergarolla, la strage cancellata prodotto da Giampaolo Penco per Videoest con il sostegno di Aipi-Lcpe, l’associazione che raccoglie i polesani esuli nel mondo (in onda su Rai 3 del Friuli-Venezia Giulia domenica 17 agosto alle 9.15 e in replica su Rai 3 bis il 20 agosto alle 21.20, prossimamente anche su Rai Storia). Con grande efficacia Penco contestualizza e scava su moventi e mandanti, dando la parola anche a storici croati/sloveni e agli odierni cittadini di Pola, coloro che dal 1947 furono richiamati da ogni parte della Jugoslavia a riempire il vuoto lasciato dagli oltre 30mila italiani che, dopo Vergarolla, abbandonarono in massa la loro città.
Scomode le domande di Penco, scomode le risposte, specie dopo 79 anni di insabbiamenti. La strage di Vergarolla – riflette Penco – avviene in tempo di pace in una città italiana che sta per diventare jugoslava ed è sotto protettorato inglese, eppure nessuno dei 3 Stati avvia una commissione d’inchiesta (ci sarà solo un’indagine della Polizia Civile, che non porterà a un risultato), invece ci si impegna tutti a cancellare quell’apocalisse dalla memoria collettiva, perché? Che cosa emerse dalle indagini della polizia? Dove sono finiti i verbali degli interrogatori? Ci furono anche arresti, ma gli indagati tornarono in libertà e tutto finì dopo sole tre settimane. Perché non si aprì alcun processo, almeno contro ignoti?
Che clima si vivesse a Pola in quell’agosto del 1946 è ben ricordato nel documentario da Salvatore Palermo e Livio Dorigo, due ultranovantenni dalla memoria lucida: la città viveva nel terrore di essere ceduta al regime jugoslavo, la vera mira dei cosiddetti “liberatori” titini era annessionistica e la propaganda in tal senso era opprimente. Paolo Radivo, autore di un corposo saggio dedicato a Vergarolla, spiega: volevano dimostrare alle grandi potenze riunite a Parigi che i polesani invocavano Tito, dunque bisognava cancellare duemila anni di romanità e secoli di italianità autoctona. Ma anche lo storico croato Darko Dubovski descrive l’angoscia della città, divisa tra le manifestazioni pro Italia e quelle pro Jugoslavia organizzate dal regime «e il problema nasceva perché Pola era una città italiana, il 90% della sua popolazione era italiano, ma c’erano anche gli italiani pro Jugoslavia che erano operai e comunisti» e si scontravano con la stragrande maggioranza «che voleva che l’Istria restasse italiana». In una Pola che, a guerra finita, nel 1945 aveva già vissuto i terrificanti “quaranta giorni” di occupazione titina con rastrellamenti di civili ed eliminazioni nelle foibe, un anno e mezzo dopo la tensione restava dunque altissima. «Nei dintorni della città c’erano ancora 5 kilotoni di esplosivi, una quantità pari alla bomba di Hiroshima», afferma Dubovski, ed erano presenti i servizi segreti inglesi, americani, jugoslavi e italiani.
A quasi 80 anni dalla strage che costrinse gli italiani a fuggire in massa, nessuno sostiene più l’ipotesi di un incidente, la matrice terroristica è assodata, ma il silenzio da parte di tutti gli Stati coinvolti nella tragedia ha fatto sì che non si sia mai stabilito un colpevole né un movente. Anche se la logica porta da una parte sola: «L’intento era chiarissimo, dal giorno dell’attentato gli italiani capiscono che a Pola non si può restare», spiega lo storico Roberto Spazzali. Lo stesso che però ricorda come il silenzio non fu solo da parte jugoslava, ma anche da parte della Nazione colpita: «L’Italia espresse un cordoglio distaccato, l’unica reazione da Roma fu un laconico telegramma di un sottosegretario…». Telegramma che, come i documenti riemersi dagli archivi “top secret” di Londra, Washington e Belgrado, Penco mostra: «Anche a nome Governo invio commossi sensi viva solidarietà popolazione colpita esplosione». Commenta Dubovski: strano il silenzio totale della Jugoslavia, «ma a me risulta più strano che abbiano taciuto gli italiani… non era conveniente parlarne? Avrebbe provocato situazioni spiacevoli?». Certo che sì: quei 28 ordigni disattivati non erano sorvegliati, compito che sarebbe toccato al Governo militare alleato che dal giugno 1945 (dopo i 40 giorni di terrore titino) si erano insediati in città. È a loro che all’indomani della strage i giornali di tutte le tendenze politiche diedero infatti la responsabilità, sia l’“Arena di Pola” (il quotidiano italiano, tuttora edito come mensile degli esuli giuliano dalmati nel mondo, giunto a 80 anni ininterrotti di vita), sia “Il nostro giornale” dell’Unione antifascista italo-slava. Solo nel mese successivo la stampa ufficializzò ciò che le indagini inglesi avevano appurato: «Esplosione provocata deliberatamente!». L’agenzia Reuter batté la notizia: «Non un fatto accidentale ma un attentato, riprese le indagini per accertare le ipotesi di un movente politico». Molti testimoni furono ascoltati, più d’uno raccontò di aver udito lo schiocco dell’innesco subito prima della detonazione, altri di aver visto un uomo giuntare un cavo proprio nell’area in cui la polizia troverà dispositivi per l’innesco a distanza; addirittura, un soldato inglese «aveva sentito uno sfrigolio e poi aveva visto una miccia bruciare».
Ma incredibilmente le indagini si fermarono qui: agli anglo americani era sufficiente per dimostrare la loro innocenza, Roma chiuse tutto con il telegramma, e per gli jugoslavi il fatto semplicemente non era accaduto, nemmeno una notizia in breve uscì mai sulla stampa slava. «Che cosa ha pensato Tito dopo la strage? Francamente non lo so», sorride ironico lo storico sloveno Joze Pirjevec, «non ho mai trovato nessun accenno a questa vicenda, nella storia della Jugoslavia, nemmeno una parola». Rincara la dose lo scrittore e diplomatico serbo Dragan Velikić, la cui famiglia è tra quelle arrivate nel 1947 a ripopolare Pola ridotta a città fantasma: «La catastrofe di Vergarolla mi era del tutto sconosciuta, anche da liceale a Pola nessuno me ne parlò mai, tutto era stato nascosto come dietro a una tenda. Solo negli anni ’80, a 40 anni, scrivevo il romanzo Via Pula e venni a conoscenza di come sono state uccise oltre cento persone, ma anche allora ne sentii parlare come attraverso una nebbia, era come se non fosse mai successo».
La stessa nebbia che ad “Avvenire” aveva raccontato nel 2021 Bruno Castro, 14 anni all’epoca della carneficina, riuscito a fuggire in Canada solo nel 1963: «Ho anche dovuto fare il soldato sotto Tito – ci aveva detto, svelando da queste pagine che il vigile del fuoco fotografato mentre correva con la salma della bimba decapitata era suo cognato Mario Angelini –. Sotto il regime nessuno fiatava, c’era tanta paura. Persino Mario ha sempre taciuto per decenni, è morto a Pola 15 anni fa senza mai parlare di Vergarolla. Bisognava dimenticare e vivere».
«C’era un’attenzione a parlare – conferma ora nel documentario il sociologo Elio Varutti – meno sai e forse vivi di più». Ancora oggi chi sa tace, ma molto sta cambiando: alle cerimonie di commemorazione del 18 agosto da qualche anno partecipano non più solo gli esuli polesani tornati apposta in Istria, ma le autorità della Pola croata, perché Vergarolla è storia cittadina. Anche quest’anno lunedì mattina presenzieranno il sindaco croato Peđa Grbin e il vicesindaco italiano Vito Paoletić, mentre gli esuli, capitanati dalla presidente di Aipi-Lcpe Graziella Cazzaniga, lanceranno dal mare una corona di fiori.
In contemporanea su Rai 3 l’inchiesta-documentario di Giampaolo Penco farà parlare per la prima volta personaggi eclatanti come Anton Vratuša, partigiano e politico jugoslavo, nel 1946 membro della Commissione internazionale che doveva investigare sull’identità etnica dei polesani: «Ovunque sui muri erano state dipinte scritte inneggianti, hočemo Tito, vogliamo Tito, hočemo Jugoslavia», ammette. Invano negli stessi giorni l’“Arena di Pola” chiedeva alle potenze vincitrici un plebiscito: «Una sterminata moltitudine invoca l’Italia e chiede la liberazione dalla tirannide jugoslava». Parole da soppesare una per una: si era in tempo di pace ma qui si invocava ancora la liberazione. Penco dà poi la parola a Roman Leljak, nientemeno che ex agente della Ozna, la polizia segreta di Tito, creata – dice lui stesso – «con il compito di liberare un’area dai nemici quando i partigiani la conquistavano», ovvero di eliminare i civili italiani appena i partigiani di Tito arrivavano in una contrada. «Si trattava di liquidazioni. A Pola c’erano 200/250 agenti dell’Ozna, i miei colleghi hanno iniziato a lavorare dall’immediato dopoguerra», spiega l’ex agente di Tito, «erano tempi difficili, l’esercito partigiano non era ancora strutturato, gli uomini arrivati nel 1945 pensavano che fosse tutto loro, che potessero fare quello che volevano. E purtroppo è stato così».
Fatto sta che il 10 febbraio 1947 (oggi Giorno del Ricordo) Pola e i territori italiani del confine orientale passarono alla Jugoslavia e gli inglesi abbandonano definitivamente le indagini. L’anno dopo Tito e Stalin si scontrano e così il primo diventa un prezioso alleato dell’Occidente, da blandire e cui tutto perdonare. Le 100 e più vittime di Vergarolla vengono semplicemente cassate, ma la vox populi, quella che ancora oggi bisbiglia, ha continuato a tramandare due nomi dei presunti responsabili, Giuseppe Kovacich e Ivan Nini Brljafa. Il report della polizia inglese ritrae Kovacich come «an Ozna agent, responsible for numerous crimes», per di più «notevole per il suo zelo nel perseguitare gli italiani». L’identikit lo descrive come alto, magro, biondo, elettricista di 30 anni, ex militare nella Marina italiana durante la guerra poi passato ai servizi segreti di Tito. Fece perdere le sue tracce, probabilmente la Ozna gli cambiò identità. Di Brljafa ebbe il coraggio di fare il nome il giornalista croato di “Glas Istre”, David Fištrović, solo nel 1999. Brljafa, attivissimo agente dell’Ozna e, negli anni ’60, anche presidente dell’Assemblea comunale di Pola, morì infine suicida per impiccagione, dopo aver scritto il suo rimorso per Vergarolla su una lettera a lungo rimasta nelle mani dei familiari. Ce ne aveva già parlato l’esule istriano e ricercatore Lino Vivoda, che quella lettera stava acquistando, ma che all’ultimo non si fidò di recarsi da solo (così gli era stato chiesto) all’appuntamento per la consegna. La lettera è oggi sparita… «Conosco il giornalista investigativo David Fištrović – commenta lo storico Darko Dubovski – non ha in mano documenti ma ha ascoltato attentamente quello che gli diceva la gente…».
Così di Kovacich e Brljafa restano i nomi come “attentatori di Vergarolla”, ma nessuna prova. Lo storico Spazzali: «Gli incartamenti del Tribunale di Pola sono spariti, dove sono?». «Da subito si diffuse l’opinione che erano stati i titini, in particolare la Lega della Gioventù comunista di Jugoslavia», conclude Dubovski. E questo ci riporta alla forte testimonianza rilasciata ad “Avvenire” nel 2016 da Claudio Perucich, fuggito con la sua famiglia in Australia a 7 anni, nel 1949: «I mandanti di Vergarolla sono nella gerarchia titina presente a Pola in quel primo dopoguerra e tra di loro, purtroppo, anche alcuni polesani, per ideologia alleatisi con Tito. Mio zio Antonio Riboni è morto a 33 anni perché non sopportava più il peso della coscienza. Per due anni era stato con i partigiani ed era anche lui membro di quella gerarchia, ma non per questo disposto a tradire l’Italia e a caldeggiare l’annessione di Pola, dell’Istria e della Dalmazia alla Jugoslavia, come invece altri italiani obbedienti a Togliatti. Quel 18 agosto 1946 zio Antonio era a Vergarolla per una nuotata, anche se si tenne lontano dagli ordigni. Conosceva gran parte delle persone rimaste uccise, era tutta gente nostra e questo lo devastò dentro. Voleva capire chi era stato e di nascosto dai compagni di partito iniziò a indagare nei suoi ambienti, essendo lui connesso al comando filo titino di Pola». Ottenne così la verità che cercava «e quello che seppe lo lasciò distrutto», ci ha riferito il nipote. «Si tolse la vita, ma prima rivelò tutto a mia madre».
Claudio Bronzin, testimone oculare della strage, giocava sui siluri insieme a una ventina di amichetti. Per fortuna dopo il pranzo si spostò in pineta, «ho perso buona parte della famiglia e decine di amici». Nel cimitero di Pola ci ha mostrato la tomba di sua zia, tra i morti di quel giorno. Nella tomba vicina riposa un uomo che si è impiccato, sulla lapide il nome, Ivan Nini Brljafa.