Molteplici studi dimostrano ormai come una regolare attività fisica non sia solo un’arma di prevenzione ma anche uno strumento straordinario per migliorare la qualità di vita e anche i risultati oncologici delle donne con tumore al seno. Lo sport rientra infatti a pieno titolo in quelle che vengono chiamate oggi terapie integrate.
«Grazie agli screening e ai progressi in ambito terapeutico, la sopravvivenza delle donne colpite da tumore alla mammella è molto aumentata», spiega Alessandra Mirri, già direttore del Dipartimento Oncologico Asl Roma 1, intervenuta durante il convegno We Breast, Le nuove frontiere terapeutiche per il tumore al seno metastatico. «Tante donne oggi convivono con la malattia o sono guarite: questo ci fa capire che è fondamentale non solo curare le pazienti al meglio, ma anche sostenere la loro qualità di vita, sia durante la terapia, visto che molte sono donne giovani che ancora lavorano e che hanno una famiglia, sia nella fase successiva alle terapie attive, aiutandole nella gestione di quei deficit funzionali indotti dalle cure o dalla malattia stessa. L’obiettivo delle cosiddette terapie integrate è proprio quello di permettere a ciascuna donna un recupero della sua autonomia nella vita quotidiana, sociale e lavorativa, attraverso strategie che concorrano, dove possibile, anche a migliorarne la sopravvivenza».
Alessandra Mirri, già direttore del Dipartimento Oncologico Asl Roma 1
Lo sport rientra a pieno titolo nelle terapie integrate «poiché, come dimostrato da molte ricerche, il movimento regolare limita gli effetti collaterali delle cure ma è anche un potente alleato per il benessere psicologico poiché riduce gli stati di ansia e migliora lo stato mentale delle pazienti», spiega la specialista. E se qualunque attività fisica può essere d’aiuto, alcune sembrano rivelarsi particolarmente efficaci sul piano fisico quanto psicologico. Tra queste, gli sport di remo.
«È stato un medico canadese nel 1996 a scoprire come il canottaggio avesse la capacità non solo di prevenire il linfedema, gonfiore causato da un accumulo di liquidi nel braccio operato che può verificarsi dopo il trattamento del tumore al seno, ma anche di riabilitare le strutture muscolo articolari del cingolo scapolare tramite un movimento continuo e armonico che coinvolge poi tutti i muscoli, delle braccia ma anche delle gambe, del torace e del tronco», spiega la dottoressa Mirri. «Il vantaggio però è soprattutto un altro: sia il canottaggio che il Dragon Boat, in cui si utilizza al posto del remo la pagaia, sono sport di squadra, si praticano cioè in una barca da 8 o 4 persone dove non conta il singolo ma l’equipaggio. Far parte di una squadra è un valore aggiunto prezioso poiché riabilita la mente con la condivisione tanto dello sforzo quanto dei pensieri, dei dubbi e dei problemi, aiutando la donna ad uscire dall’isolamento in cui il tumore la getta».
Nel 2019 la dottoressa Mirri entra in contatto con Simona Lavazza, atleta che ha avuto il cancro al seno in giovane età e che nel 2015 ha fondato l’ASD no profit «RosaRemo», con l’obiettivo di aiutare altre donne che stavano vivendo o avevano vissuto la stessa esperienza. Colpita dalle sue parole e dalle donne che remavano nella squadra, l’oncologa decide così di estendere la pratica sportiva del canottaggio nella sua Asl. «Mi sono detta: perché non cerchiamo di convincere a praticare canottaggio le donne che stanno seguendo una terapia per il tumore al seno o che vediamo in follow-up?», racconta la dottoressa Mirri. «E così è stato: ho affiancato in questa avventura pazienti in terapia attiva ma anche donne che avevano terminato le cure, in alcuni casi anche pazienti con tumore al seno metastatico, facendole allenare regolarmente con allenatori abilitati. Per aiutarle dal punto di vista medico ma non solo: io remo con loro ed è una cosa che mi riempie di soddisfazioni».