Monk’s House è immersa nel verde. A differenza della vicina Charleston, luogo elettivo della sorella Vanessa, la casa di Virginia Woolf, quella a cui lei e il marito Leonard destinarono lunghi soggiorni vacanzieri e buona parte della seconda guerra mondiale, almeno fino a quando Virginia non si uccise nel 1941, è nascosta dal fitto fogliame degli alberi. Non si concede, si sottrae alla vista
Monk’s House è immersa nel verde. A differenza della vicina Charleston, luogo elettivo della sorella Vanessa, la casa di Virginia Woolf, quella a cui lei e il marito Leonard destinarono lunghi soggiorni vacanzieri e buona parte della seconda guerra mondiale, almeno fino a quando Virginia non si uccise nel 1941, è nascosta dal fitto fogliame degli alberi. Non si concede, si sottrae alla vista.
A pochi chilometri da Lewes, nel cuore dell’East Sussex, dove prati sconfinati ospitano bestiame al pascolo e quasi nessuna costruzione all’orizzonte, Virginia si dedicava prevalentemente alla scrittura. Si alzava, smistava la posta, scriveva, nel pomeriggio correggeva ciò che aveva scritto la mattina. Difficile trovare un’autrice del passato con la vita più scandita dall’esercizio letterario, più dedita all’opera, al romanzo, al suo universo immaginifico: proprio a Monk’s House vennero alla luce alcuni dei suoi capolavori, La signora Dalloway nel 1925, Al faro nel 1927, Le onde nel 1931.
Gli interni decorati dalla sorella Vanessa in un clima contemporaneamente intimo e austero che contrasta con le rigogliose e fitte trame del giardino, degli alberi da frutto, delle siepi potate in modo tale da creare oasi quadrate di prato sono del tutto separati dal luogo in cui Virginia scriveva. L’ampia camera da letto dove pure si coricava rigorosamente da sola non le riusciva a genio, non si confaceva alla produzione creativa. E lo spazio in cui la mente si sforza di partorire un’idea, soprattutto se letteraria, ha bisogno di assumere su di sé una speciale forza magica, un potere di attrazione vitale; necessita di un’atmosfera.
Virginia lo sapeva, pertanto si era spostata poco più in là, precisamente dall’altra parte del giardino, in fondo a quello che in origine era forse un capanno degli attrezzi, o per usare un’espressione più raffinata, una garden room: le pareti di vetro su cui batte incessantemente il riflesso dei rami degli alberi e delle foglie, un immenso tavolo di legno ingombro di fogli e di volumi. Altro che una stanza tutta per sé – la cui stesura avvenne peraltro proprio qui.
Viene da sorridere se si pensa che alcune delle pagine di quello che è a oggi uno dei più celebri, sagaci, brillanti saggi sulla condizione femminile del ventesimo secolo sono dedicate allo scrittoio di Jane Austen, collocato diversi chilometri più a ovest, nella cittadina di Chawton: muoveva perplessità, in Virginia, il fatto che Jane Austen fosse riuscita a concepire i suoi romanzi seduta in un angolo del suo soggiorno domestico, sprovvista dunque di quella fantomatica stanza chiusa a chiave, esposta anzi a interruzioni, distrazioni, incombenze che sono solite scandire l’esistenza di una donna e colpevoli, secondo l’autrice, di inibire la sua predisposizione artistica – o addirittura di metterla a tacere per sempre.
GEMDIAZ, Homenaje a Virginia Woolf – wikicommonLei e Jane Austen
Ecco, paragonata a Jane Austen, Virginia rappresenta a tutti gli effetti un balzo in avanti politico oltre che temporale: la garden room adattata alle proprie esigenze letterarie, trasformata in tutto e per tutto in uno studio, a debita distanza non solo dalle altre camere, ma da tutti i luoghi in cui si svolgeva la vita domestica, la rende un’autentica privilegiata, la tenutaria di un potere d’espressione impensabile fino a qualche decennio prima. Di più: si può dire che la sua condizione restasse un’eccezione anche allora. Si pensi che il desiderio di emancipazione di Virginia la condusse a fondare, insieme al marito, una casa editrice, la Hogarth Press, con la quale gestiva personalmente le uscite dei suoi testi, senza passare dal tritacarne delle attese, dei rifiuti editoriali, dei manoscritti infilati in una buca delle lettere e spesso restituiti senza una sola parola a corredo – come accadeva a molti degli autori della sua generazione. L’unico consulente di Virginia, il solo cioè ad avvallare il suo lavoro era Leonard: e lo stesso ci sono giunti i dettagli dello stato d’ansia in cui si crogiolava ogni volta che gli consegnava un nuovo romanzo e doveva attendere un suo responso.
Di fronte a un mondo culturale e accademico censorio, che puntualmente si rivelava ostile alle donne, il monito di Virginia Woolf è: fate da voi. Un compito quanto mai arduo, soprattutto per l’attuale assetto sociale, che ha senz’altro spuntato molte differenze di genere, ma ancora rende impraticabile vivere del lavoro letterario, a meno che non si sia già ricchi e non si disponga di una rendita familiare: le famose «cinquecento sterline l’anno» che Virginia auspicava qualunque scrittrice sarebbe stata in grado di guadagnarsi, un domani, con il proprio lavoro. Tradotti secondo la valuta corrente, di quanto denaro avremmo bisogno oggi per raggiungere la cosiddetta libertà economica necessaria per scrivere? Dodicimila euro basterebbero? Forse no, a giudicare dal prezzo della vita continuamente in rialzo, e in particolare di quello al metro quadro, che impone alla maggior parte dei giovani di gettare metà dello stipendio in affitto; tant’è che quasi tutti decidono di condividerlo.
La sorella di Shakespeare
Immaginiamo che Shakespeare avesse una sorella, ipotizzava Virginia Woolf un secolo fa, arrivando a concludere che si sarebbe probabilmente uccisa. Sarebbe divertente traslare l’esercizio al presente: cosa succederebbe se Shakespeare fosse un promettente genio contemporaneo e avesse una sorella, più o meno sua coetanea, dotata delle stesse aspirazioni e, si presume, dello stesso talento? Finirebbero schiacciati in un appartamento del centro cittadino a contendersi il soggiorno – il solo spazio casalingo compatibile con lo sforzo di concentrazione richiesto dalla scrittura – e a metà mese starebbero già domandandosi dove e come hanno finito le entrate da poche centinaia di euro raggranellate in collaborazioni o a partita Iva.
Si accuserebbero l’un l’altra di non sapere tenere i conti, di indulgere in spese superflue; tenterebbero di chiudersi in casa, di lesinare su qualunque forma di consumo – un arduo slalom in mezzo alle più diverse tentazioni, considerando che la società attuale si regge proprio sul potere d’acquisto, e nessuna esperienza di condivisione è più possibile senza pagare. La pressione si rivelerebbe presto eccessiva, e li ritroveremmo seduti fuori da un locale alla moda al terzo bicchiere di vino.
A chi volesse sapere che ne è stato delle loro ambizioni, risponderebbero che con la cultura non si mangia. Tradotto: si saranno adeguati ad accettare un lavoro in un circuito aziendale che si serve di giovani talenti letterari per investire sulle proprie campagne di marketing. Assuefatti dal conto improvvisamente non più in rosso e da ritmi quotidiani sfibranti, diventerebbero cinici; comincerebbero a predicare astiosamente l’esigenza di essere realisti e con i piedi per terra. A provare un discreto, misurato odio verso chiunque dica di non avere ancora perso le speranze.
Pertanto non serve chiedersi cosa succederebbe se Shakespeare avesse una sorella nel 2025. Perché con ogni probabilità non avremmo neanche Shakespeare.
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