Ascolta la versione audio dell’articolo

L’occupazione cresce, da luglio 2024 siamo stabilmente sopra i 24 milioni di unità; ma è trainata solo dagli over50. La demografia purtroppo si sente, così come si sente l’effetto dell’aumento dell’età pensionabile. Per giovani e donne il quadro mostra più ombre che luci; il costo del lavoro a carico delle aziende è elevatissimo, la produttività invece al palo; e si sconta un mismatch ormai a livelli insopportabili. Abbiamo sacche di inattività e di Neet troppo elevate. Senza girarci troppo intorno, c’è un problema salari, ma la contrattazione collettiva funziona, eppure bene, e dove i Ccnl si rinnovano nei tempi, come nell’industria, il gap con l’inflazione si sta recuperando. Il pubblico impiego resta troppo indietro. Proviamo a vedere per macro temi come sta davvero andando il mercato del lavoro, numeri alla mano.

Occupazione record (ma tutti over50)

L’ultimo dato Istat, stima provvisoria, relativa al mese di giugno ha registrato un nuovo, lieve, incremento del numero di occupati (+16mila persone). Sull’anno ci sono 363mila individui che lavorano in più. L’occupazione però sta salendo, e da mesi, solo nella fascia over50: +603mila occupati rispetto a giugno 2024; la fascia centrale d’età, quella per capirci tra i 35 e i 49 anni, ha subito una netta flessione tendenziale, -180mila unità. I nuovi occupati sembrano essere in larga parte persone che sono rimaste più a lungo al lavoro dopo le ultime riforme delle pensioni, soprattutto quella Fornero. In numeri assoluti gli occupati in Italia non sono mai stati così tanti (pur restando il nostro tasso di occupazione all’ultimo posto in Europa): 24.326.000 unità; in un anno si sono registrati 472mila occupati permanenti in più (lavoratori con contratto a tempo indeterminato) e 299mila temporanei in meno. Nel lavoro dipendente, è in atto, da un po’ di mesi, un interessante processo di “sostituzione” tra occupazione a tempo (sempre meno) e permanente (che invece aumenta), spiegabile anch’essa con i ritardi nei pensionamenti. Tra giugno 2024 e giugno 2025 è in crescita anche il lavoro autonomo: +190mila indipendenti. Il tasso di disoccupazione, sempre a giugno, è sceso al 6,3% (nell’area Euro siamo al 6,2%): in numeri assoluti i disoccupati in Italia sono 1.621.000, in calo di 94mila unità nel confronto con i 12 mesi prima. C’è però un problema di inattività che resta a livelli record in Europa: il tasso è salito al 32,8%, anche se sull’anno, il numero assoluto di inattivi (tra cui si annoverano gli scoraggiati) è sceso di 147mila unità.

Giovani in affanno, ancora troppi Neet

Per una delle categorie più vulnerabili del mercato del lavoro, cioè i giovani, il quadro mostra più ombre che luci. Il tasso di disoccupazione degli under 25 è al 20,1%; siamo agli ultimi posti a livello internazionale (la Germania è distante anni luce da noi, con il 6,4% di tasso per gli under 25). Sull’anno l’occupazione è in calo sia nella fascia sotto i 25 anni (-43mila unità) sia in quella tra 25 e 34 anni (-17mila unità) e il tasso, pur essendo cresciuto negli ultimi anni, resta basso e con forti disparità territoriali. Un campanello d’allarme è l’inattività, che sta rialzando la testa in queste fasce d’età. C’è poi il potenziale non sfruttato dei Neet, vale a dire giovani che non studiano, non lavorano e non sono inseriti in percorsi formativi. Gli ultimi dati Istat relativi al 2024 rilevano, sebbene in diminuzione, 1,34 milioni di ragazzi e ragazze tra i 15 e i 29 Neet, con un’incidenza nel Mezzogiorno più che doppia rispetto al Nord. Su questi numeri pesano politiche attive (e di integrazione tra formazione e lavoro) di gran lunga inadeguate, messe in campo dai governi di ogni colore politico. Se a ciò aggiungiamo la quota di giovani “expat” ci rendiamo conto dell’allarme. La Fondazione Nord Est ha elaborato dati agghiaccianti: tra il 2011 e il 2024, oltre 630mila giovani (18- 34 anni) si sono trasferiti all’estero; al netto dei rientri, il saldo negativo sfiora le 440mila unità, in gran parte laureati. Il risultato è una perdita di capitale umano che indebolisce il potenziale di crescita e l’innovazione, con ricadute sulla produttività, sulla sostenibilità del nostro sistema di welfare, sui conti pubblici.

Per le donne ancora più ombre che luci

Se prendiamo in considerazione l’altra categoria debole del mercato del lavoro, cioè le donne, la situazione è molto preoccupante. A fronte di un tasso di occupazione maschile al 71,5%, quello femminile si ferma al 54,2%, vale a dire oltre 17 punti percentuali in meno. Siamo fanalino di coda anche a livello internazionale nonostante il livello di donne occupate sia al punto più alto mai raggiunto in Italia. Non solo. Il tasso di permanenza nell’inattività delle donne è 4 punti superiore a quello degli uomini. Solo il 20% delle ragazze immatricolate poi sceglie corsi scientifico-tecnologici (Stem), rispetto al 40% dei ragazzi. Secondo l’Ocse, ridurre il divario di genere, soprattutto tra i giovani, potrebbe aumentare la crescita annua del Pil pro capite nazionale di oltre 0,35 punti tra oggi e il 2060, il maggior contributo tra i Paesi Ue.

Scopri di piùScopri di più

La demografia è una mina

Le ultime parole del ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, hanno suonato un po’ la sveglia: la denatalità è un problema, soprattutto per il mercato del lavoro, e diventerà un serio problema tra qualche anno. I numeri li hanno ricordati un po’ tutti i principali osservatori statistici: entro il 2040, come ci dice l’Istat, il numero di persone in età lavorativa si ridurrà di circa cinque milioni di unità. Ciò potrebbe comportare, ha aggiunto Banca d’Italia, una contrazione del prodotto stimata nell’11 per cento, pari all’8 in termini pro capite. Negli ultimi anni le nascite sono state inferiori alle 400mila l’anno, con questo andamento, al netto di clamorose quanto improbabili inversioni di rotta, la popolazione passerà dagli attuali 59 milioni di abitanti a 54,7 milioni entro il 2050. L’effetto di ciò è una lenta, silenziosa, ma inesorabile ricomposizione della popolazione: in uno scenario mediano, sempre le previsioni Istat, indicano entro il 2050 che le persone di 65 anni e più potrebbero rappresentare il 34,6% del totale (dal 24,3%). Ciò farebbe aumentare il tasso di dipendenza degli anziani, cioè l’indicatore che esprime il rapporto tra gli over 65 e le persone in età lavorativa (15-64 anni), si va dal 19% del 1980 al 52% stimato nel 2060. Senza considerare che in vent’anni, dal 2004 al 2024, abbiamo già perso oltre 900mila giovani under19. Ne consegue un rallentamento della crescita del Pil pro capite, con un calo, in assenza di un significativo aumento della produttività, del 40% da qui al 2060. Secondo l’Ocse, la popolazione in età lavorativa scenderà del 34% tra il 2023 e 2060. Sono 12 milioni di persone in meno (a fronte di un calo medio dell’area Ocse dell’8%). La riduzione del rapporto tra occupati e popolazione, stimata sempre dall’Ocse, di oltre 5 punti percentuali nel 2060, avrà conseguenze pesanti: senza interventi di politica economica e la solita crescita della produttività, l’Organizzazione parigina prevede una flessione per l’Italia del Pil pro capite di quasi 0,5 punti all’anno. Nel 2060 si prevede un (drammatico) -22% rispetto a quello attuale.