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Nel tritacarne globale dei social media, una mattina di qualche tempo fa era apparso un video dove Donald Trump e l’ex amico Elon Musk mentre visitavano una Palestina trasformata in un immenso villaggio turistico. Che fosse un falso era abbastanza facile da “sgamare”. Ma molto meno, però, quello che Trump ha pubblicato mesi dopo: l’ex presidente Barack Obama viene arrestato dall’FBI che lo sbatte in galera: non è vero ma è talmente realistico che molte persone ci sono cascate. L’Italia, però, ha la soluzione alle bufale. Si chiama IdentifAI e ha una guida d’eccezione: la signora del tech Kate Burns, canadese ma, esordisce «io mi sento ormai pan-europea».
L’Italia ha la medicina contro i falsi su internet
IdentifAi è una società innovativa nata appena un anno fa, a Milano: l’hanno messa in piedi Marco Ramilli e Marco Castaldo. Ramilli è un ex dirigente di Tinexta, gruppo digitale romano, con un passato nella sicurezza informatica pure per il governo americano. L’idea di un programma intelligente che riconosce i deepfake, i falsi sofisticati, gli era venuta due anni prima, il giorno di Marzo del 2023 in cui i social media venne invaso da una foto inusuale di Papa Francesco: lo scomparso Bergoglio indossava un piumino Moncler. Era un falso clamoroso. Se un Marco è l’uomo della tecnologia, l’altro Marco, Castaldo, è l’uomo dei numeri: ha lavorato in Azimut, la società di risparmio gestito, e nel colosso finanziario Credit Suisse. Appena partiti, hanno subito raccolto oltre 2 milioni di Euro e dopo nemmeno un anno, nel pieno dell’estate, hanno chiuso un secondo giro di finanziamento da 5 milioni, orchestrato da United Ventures, il fondo di Massimiliano Magrini, guru tecnologico, e Paolo Gesess.
La donna che visse molte vite (sul web)
La mossa successiva è stata chiamare la “Wonder Woman” Burns. La 50enne veste in modo casual-elegante, con un tocco di eccentricità dei tanti anelli, bracciali e collane: «Sono laureata in Linguistica» esordisce alla domanda sulla sua storia. Dalla linguistica all’intelligenza artificiale sembra una “carriera per caso” e invece è una sorta di pre-destinata. E’ nata in Ontario, la provincia di Toronto delle Cascate del Niagara: da piccola sognava di fare l’attrice, come tutte le bambine. I suoi genitori avevano altre aspirazioni, come tutti i genitori: «Speravano in un futuro da avvocato, alla fine abbiamo trovato una via di mezzo con la linguistica» ricorda sghignazzando. Ha molte vite alle spalle: è seduta a un tavolino della terrazza sul tetto della Soho House di Londra, a bordo piscina, con vista sulla chiesa di St. Mary-Le-Strand. Londra è per Kate la città adottiva: la famiglia Burns, di lontane origini mediterranee, si trasferì dal Canada nel Regno Unito alla fine degli Anni ’70 . Quando parla rivela un modo di pensare e un substrato culturale tipicamente nordamericano. La sua vita professionale si è snodata tra le start-up, da un progetto tecnologico pionieristico all’altro, ogni volta tanto improbabile quanto rivoluzionario. E se n’è sempre scappata a un passo dal successo, prima che l’unicorno di turno spiccasse il salto. E’ quanto di più americano, anzi californiano, anzi Silicon Valley, si possa immaginare. Dopo la laurea, all’Università di Birmingham, trova lavoro al The Sun, il famoso tabloid inglese che mischiava scoop più o meno discutibili alla seguitissima terza pagina, quella con le donne a seno nudo: è uno dei giornali più venduti del paese negli Anni ’70 e ’80. Lei si deve di occupare di vendite di spazi pubblicitari, quanto di più lontano dalla laurea di compromesso coi genitori. Ma più della grossolanità del giornale, il vero ostacolo è il proprietario: Rupert Murdoch. Il magnate australiano aveva comprato il quotidiano nel 1969 e il soprannome “Lo Squalo” non era un’esagerazione: «Era quasi sempre via per lavoro, ma quando c’era era una persona terrificante» racconta. Gli uffici di Newscorp avevano sei piani: «Il nostro era una boiler room (letteralmente il “locale caldaie” ma è un’espressione per indicare attività fraudolente, al limite delle legalità, Ndr)».
Riviste e cassette a nastro
Per la giovane Kate, sono anni di gavetta che le insegnano molto sul mondo della pubblicità. Ma la vera svolta per lei arriverà con l’informatica: lascia Murdoch e approda a Ziff Davis. E’ storica una casa editrice americana, nata ai primi del ’900, e pubblica molte rivista di hobby. Negli Anni ’80, però, compare sul mercato un nuovo hobby: il personal computer. Nelle case arrivano i primi Commodore 64 e Ziff Davis lancia una rivista di computer: si chiama PC Magazine e in poco tempo diventa la Bibbia del settore. «Cercavano persone per testare una cosa chiamata Internet, di cui nessuno aveva sentito parlare» ricorda oggi, ridendo. Accetta la proposta ma intanto il reparto dove lavora inventa una rivoluzione per l’industria dei periodici: l’abbinamento editoriale. Appiccicata sulla copertina della rivista PC Magazine, c’era in regalo una cassetta con dentro programmi. Diventa un successo planetario, copiato da tutti. Anni dopo, anche in Italia arrivò il modello commerciale con Panorama e l’Espresso che regalavano il film della settimana. Ai tempi di PC Magazine, il destino di Kate non fu segnato dalle iniziative commerciali, ma da un paperone che sedeva ai piani alti: il gruppo Ziff Davis «all’epoca era di proprietà della banca giapponese Softbank» che a sua volta era stata fondata da un signore giapponese allora semi-sconosciuto: Masayoshi Son. L’imprenditore diventerà uno dei super-magnati mondiali (oggi ha una ricchezza stimata in 45 miliardi di Dollari). Quando Kate lavorava nella casa editrice, tra i vari investimenti di Softbank c’era pure una quota di maggioranza (il 51%) di una stranissima start-up informatica: si chiama Yahoo!. Son le chiede di trovare il modo di fare i soldi con quella società dallo strano nome e dal mestiere ancor più strano. «Ci venne l’idea di mettere degli annunci pubblicitari sulla Home Page che era una pagina statica». Senza saperlo, Kate inventa i banner, la pubblicità su internet. E’ l’alba di una nuova era, ma la giovane Kate non capitalizzerà l’enorme rivoluzione: «Avevo azioni Yahoo! ma lasciai l’azienda prima del boom di internet e prima della quotazione». Perde l’occasione di diventare ultra-milionaria a meno di 30 anni, ma avrà altre soddisfazioni. Poco dopo l’addio, la chiamano a guidare tutte le attività in Europa di Altavista: è il concorrente di Yahoo!, altro pioniere del web e scomparso da tempo. «Giovanissima, divento capo di un intero continente».
Un’azienda sconosciuta chiamata Google
Rimarrà poco anche lì perché dopo 3 anni, arriva un’altra chiamata, sempre dagli Stati Uniti: «E’ un’altra start-up, cercano da tempo una persona per gestire l’Europa. Mai sentiti prima: si chiamano Google e scopro che sono una sorta Pagine Gialle sul web». Oggi Google è il signore del web, ma non ha mai fatto sconti, nemmeno all’inizio: «Il colloquio di assunzione dura 10 ore, è una prova durissima, dove incontro anche Larry Page che mi assume». Diventa la prima donna, in tutta la storia, anche futura, di Google, a guidare la divisione International che copre tutto il mondo. All’epoca, però, era meno di niente: «Dovevo mettere in piedi tutta l’attività mondiale di Google ma non mi diedero alcun sostegno: ero da sola a lavorare, in una stanza-ufficio a Soho, dove dormivo anche». Kate è uno schiacciasassi e dopo 6 anni, la Google International conta centinaia di dipendenti e la divisione europea, da lei guidata, diventa la zona geografica più grande, come ricavi e profitti, dopo gli Stati Uniti. Quando i due cervelloni, Larry Page e Sergei Brin, volano a Londra per la prima vota, a visitare i loro uffici europei, chiedono a Kate di portarli al British Museum a vedere la Stele di Rosetta, l’iscrizione tri-lingue che ha permesso di decifrare i geroglifici egiziani. Alla fine, quella laurea in linguistica non era stata così inutile: «Il linguaggio umano funziona come un algoritmo, le strutture mentali e logiche delle lingue sono simili ai modelli di calcolo di un computer» commenta. Nel frattempo, Kate diventa anche mamma di 2 figli: in teoria ha tutto, successo sul lavoro e famiglia. Ma sente che qualcosa non va: «Dopo la quotazione in Borsa, la cultura aziendale di Google era cambiata e non mi piaceva più». Così, dopo 7 anni al vertice, è tempo di un nuovo addio per accettare una sfida opposta: risanare un’azienda malata. Approda in AOL Europe: America On Line era stato il più grande internet service provider degli Stati Uniti (i famosi ISP, i rivenditori di accesso) ai tempi della New Economy, con 30 milioni di abbonati. Fu poi scalata dal colosso dei media Time – Warner: «Mi ritrovo a dover chiudere divisioni e licenziare centinaia di persone». Ma le riesce anche quello: trasforma l’azienda in un editore digitale, con l’acquisizione dei giornali online Huffington Post (edizioni inglese e spagnola, quella italiana è del gruppo GEDI di John Elkann) e TechCrunch. La storia della Signora Burns ha scandito tutte le tappe della rivoluzione digitale degli ultimi 30 anni.