«Ora intendo vivere senza maschere e senza corazze. E diventare un punto di riferimento per i ragazzi bullizzati perché la diversità è un valore: ognuno di noi è unico», dice la terzogenita dell’allenatore

Un giorno questo dolore ti sarà utile. «È il mio mantra. La sofferenza ha un senso. Può renderci migliori. Dipende da come l’affrontiamo». Parla, non declama. E sorride con timida dolcezza, Camilla Mancini, 28, autrice di Libera di essere me, un memoir, o diario dell’anima, che sta bissando l’ottimo riscontro del suo primo romanzo, Sei una farfalla – foto

Chiariamolo subito. Camilla, laureata in Comunicazione, è una promettente scrittrice. Poi, per inciso, è anche la figlia di Roberto, talentuoso calciatore e carismatico ex allenatore della Nazionale. «Ho un cognome impegnativo. Non lo nego: in passato si è rivelato un peso. La gente ama le etichette. E io sono stata incasellata nel cliché della ragazzina ricca e viziata. Ma la mia storia non è uno stereotipo».

Ce la racconta? «Sono nata con una paresi facciale, che mi causa un’asimmetria nel volto. Quando a mia madre si ruppero le acque, il cordone ombelicale mi colpì sulla parte destra del viso, sfornita di protezione. Pesavo appena due chili e cento grammi. I nervi sono rimasti schiacciati. Da piccola, ero felicemente inconsapevole dell’anomalia… Chiamiamola così. Mi
mancavano termini di paragone».

La famiglia la proteggeva? «Enormemente. Sia i genitori, sia i miei due fratelli mi hanno sostenuto. Ero in una bolla. In prima elementare, è avvenuto l’impatto con il mondo esterno».

Che fa male. «Parecchio. Non è semplice fronteggiare compagni che ti chiedono di continuo cos’hai sulla faccia. O che ti escludono dai giochi, perché non sei come loro. Sono i due lati di un’identica medaglia: il bullismo. Che ha provocato i successivi disagi: disturbi dell’alimentazione, crisi di panico, attacchi di ansia».

Un terribile circolo vizioso. Che mina un’esistenza. Lei è stata capace di uscirne. E si è ripresa la sua vita. Libera di essere me è l’emozionante cronaca di una scalata vittoriosa. «A 17 anni ho avviato un tragitto psicoterapeutico. Che mi ha permesso di arrivare fin qui. I genitori sono preziosi, però non bastano. A volte occorre la competenza di uno specialista. Per decifrare il magma che abbiamo dentro. Per imparare a volerci bene. Nessuno sarà mai felice, se non ama se stesso».

«C’è una crepa in ogni cosa e da lì entra la luce», canta Leonard Cohen. «La diversità è un valore. Ognuno di noi è unico. E finalmente accetto il fatto come una vittoria. Il libro vorrebbe essere una sorta di prontuario per i numerosi ragazzi che attraversano la tempesta. Il mio memoir è un elogio dell’errore. Per anni ho inseguito un ideale astratto di perfezione. Era un transfert, un meccanismo di compensazione. Il problema fisico mi spingeva a essere ineccepibile in qualunque attività intraprendessi. Dovevo e volevo compiacere gli altri. Agivo compulsivamente. Avevo manie di controllo, che ti condannano a un sicuro supplizio. Giacché la situazione, in realtà, sfugge continuamente di mano. E il controllo è una pura illusione».

«Ho provato, ho fallito. Non importa, riproverò. Fallirò ancora. Fallirò meglio». «Questa frase di Samuel Beckett è programmatica. Intendo vivere senza maschere e senza corazze».

E con i capelli raccolti, se le va… «Per anni li ho tenuti rigorosamente sciolti. Per coprire il viso. Erano la mia coperta di Linus. Alla prima presentazione ufficiale, invece, ho mutato pettinatura e li ho raccolti. Ho il dovere di agire in linea con i consigli che cerco di offrire. Dobbiamo sfidare le nostre paure, alzare l’asticella e superarla di slancio. Vorrei diventare un punto di riferimento per i ragazzi bullizzati. A settembre, comincerò un tour del libro nelle scuole.
A me è mancata una figura del genere. I giovani provano, istintivamente, maggiore fiducia verso un coetaneo».

Il suo libro è (anche) un elogio della scrittura. Che ha una funzione terapeutica. «Fin da bambina, tenevo un quaderno, dove annotavo pensieri sparsi. Nel corso degli eventi, ho capito che narrare significa smettere di subire. È una forma di difesa attiva; uno strumento che aiuta a seppellire il rancore e a snidare la bontà nascosta nell’Universo».

Il Bene sconfigge il Male? «Quando ti trovi a tu per tu con un bullo, sei solo. Io, in principio, mi sentivo paralizzata, impotente. In pochi secondi dovevo stabilire come rispondere all’aggressione. È stata durissima. Non è giusto indorare la pillola. La resilienza è un’arte che si apprende giorno per giorno. Ogni volta che scopriamo in noi la capacità di reagire e di non arretrare, accumuliamo un capitale di forza. Gli atti di coraggio sbloccano energie che ignoravamo di possedere».

Qual è il consiglio basilare che darebbe alle vittime di azioni prevaricatorie? «Siate fragili e forti, contemporaneamente. Siate umani, con amore».

È possibile che Libera di essere me illumini pure gli adulti? «Sarebbe bello. È indispensabile lavorare sui grandi. Dietro un bullo, non di rado, ci sono genitori che sbagliano. Ce lo mostra lo splendido Wonder, il mio film-manifesto. La famiglia può essere una condanna o una risorsa».

E i social, che ruolo hanno? «Dipende dall’utilizzo. Non li demonizzo a prescindere. Sono uno strumento. Io uso Instagram, per promuovere le battaglie».

Nel memoir spiega che mamma Federica è “il sole”, papà Roberto “la luna”. «Mia madre ha il dono del sorriso. È una donna positiva. A lungo l’ho colpevolizzata, per quanto è accaduto. Mi serviva un capro espiatorio. Mi ponevo troppe domande, sprovviste di risposta. Lei ha saputo starmi vicino. E ha rispettato i miei spazi».

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E suo padre? «Papà è enigmatico. Ha le fasi, come la luna, per l’appunto. Non è abituato a esprimere i propri sentimenti. Però mi ha sempre appoggiato con dedizione».

Nonostante un mestiere da girovago con la valigia in mano. «Da piccoli, un’assenza appare mancanza d’amore. La percepisci così. Non hai gli strumenti per elaborare. Ho sofferto per la lontananza di mio padre, che era spesso via, per gli impegni da calciatore e allenatore. Adesso sono cresciuta. E ho compreso che le vere distanze non sono fisiche, bensì psicologiche. Papà mi ha trasmesso l’etica del dovere. Con l’esempio, non con le chiacchiere».

Lei descrive in maniera toccante il rapporto tra suo padre e Luca Vialli. «È un legame che ha travalicato i confini terreni. Luca era uno di famiglia. È stato il padrino al battesimo di mio fratello. Ci ha visti crescere. Lui e papà si completavano a vicenda. Vialli permetteva a mio padre di essere vulnerabile. Autentico».

Il loro abbraccio dopo la vittoria agli Europei è uno dei momenti più iconografici e commoventi del XXI secolo. «Sono rabbrividita. Credo che moltissime persone abbiano vissuto una vibrazione altrettanto intensa. Quello era il mio papà. Con il suo migliore amico».

Lei cosa vuol fare, da grande? «Scrivere libri e assistere il prossimo».

E nel privato? «Immagino tanti figli. E sogno un compagno, che sia complice e confidente. Ognuno di noi è completo da solo. Se avrò una relazione, sarà perché ne vale la pena. Non inseguo la mezza mela. Pretendo una mela intera».