di
Candida Morvillo

L’attore e regista intervistato durante la Milanesiana, a Bormio, dove, al Museo Civico, espone le sue fotografie: «Sono scatti senza persone»

Carlo Verdone, da un po’ lei è anche fotografo: alla Milanesiana ha inaugurato una mostra curata da Elisabetta Sgarbi, colma di cieli e panorami e vuota di persone, intitolata «L’intelligenza del silenzio». In tempi come i nostri, di frastuono e di caos, che cos’è «l’intelligenza del silenzio»? 
«Il silenzio dobbiamo cercarlo, ne siamo noi gli artefici. Basta andare in un luogo che porta ispirazione, meditazione, riflessione. Quando ero studente universitario e abitavo coi miei, il luogo che più amavo era il terrazzo condominiale. Io e un mio amico ci davamo appuntamento lì alle sei del pomeriggio, ora del tramonto, quando il sole sprofonda. Fumavamo di nascosto, ci mettevamo sul parapetto e guardavamo verso il Gianicolo. Non ci dicevamo una parola, però era un meraviglioso momento poetico. Giovanni faceva le sue riflessioni e io le mie, fissando gli alberi, il faro del Gianicolo che pian piano cominciava ad accendersi e, sotto, il Tevere. Oggi, il mio buon retiro è in Sabina. Lì ho una casa isolata su una collina: quello è il luogo del mio silenzio, dove ho scattato la maggior parte delle fotografie. Le ho definite “preghiere senza parole”, perché l’artefice di quegli scatti non sono io: sono i colori che dà il Padre Eterno, però l’abilità mia è costruire una buona inquadratura e capire il momento giusto per catturarla». 

È l’intelligenza del creato che cerca? 
«Per “preghiere senza parole” intendo questo. Cerco un momento mistico e questa è una reazione al lavoro che faccio. I miei film, essendo commedie, sono diluvi di parole e poi diluvi di primi piani, controprimi piani, totali… c’è sempre tanta gente. Ecco, in queste foto non esiste l’elemento umano. E quando fotografo, non voglio nessuno con me, devo essere io solo». 



















































Siamo più intelligenti quando ci guardiamo dentro in solitudine? 
«Siamo intelligenti se bastiamo a noi stessi. Dobbiamo aver fiducia nella nostra capacità di trovare soluzioni riflettendo. Il silenzio aiuta a riflettere e, per chi crede, anche a pregare. Una vita solo caotica, rumorosa, è insopportabile. Federico Fellini, prima che si ammalasse, aveva saputo che non dormivo tanto e, visto che anche lui aveva lo stesso problema, un giorno, mi disse: “Ma te posso rompe’ verso le sette di mattina? Così mi racconti un po’ ’sto mondo che non riesco a capire”». 

E lei che cosa riuscì a spiegargli? 
«La prima telefonata fu drammatica perché era stato al Metropolitan a vedere non so quale film ed era rimasto colpito dal pubblico: “Quei ragazzini coi pattini, con le gambe appoggiate sulle sedie davanti. Screanzati. Ma questi che capiscono del cinema?”. “Non lo so,” dico, “è un momento particolare”. “Ma che cos’è ’sta musica di ’sto Michael Jackson? Io non riesco a capi’”. E io: “Federico, tu sei de ’n altra epoca, diciamoce la verità. Tu amavi Nino Rota… la musica è cambiata. Nun me di’ che i Beatles, almeno quelli, nun te piacevano”. “Sì, qualcosa l’ho sentita…”. “Eh, qualcosa, però devi seguire il mondo, tu che sei un grande osservatore”. “Eh, lo so, lo so”. Era un uomo in grande difficoltà, tant’è che il suo ultimo film, che non ebbe successo, La voce della luna, del 1990, cercava il silenzio». 

Perché le sue foto nel silenzio sono anche un modo di pregare? 
«Be’, io quando fotografo ringrazio il Padre Eterno di quello che mi sta dando, che sia l’arrivo di un nubifragio coi fulmini e la tempesta o che sia un tramonto struggente». 

Nell’era dello scientismo, con quale forma di intelligenza si può ancora avere fede? 
«Io la fede la perdo e la riconquisto. Mi sforzo di credere e finirò per morire credente, però in tanti momenti sono pieno di dubbi, mi ricordo qualche riflessione di Baruch Spinoza che mi mette in difficoltà. Per lui, Dio è la natura e, anche noi, essendo natura, siamo Dio. Quindi Dio non s’interessa di noi, non fa miracoli, non fa niente, perché siamo già noi parte di lui. Ma nel pensiero di Spinoza non c’è la distinzione tra il bene e il male. Che io, invece, sento moltissimo e riesco a trovarla soltanto attraverso le parole del Vangelo. Posso entrare in crisi mille volte, però poi, alla fine, nel Vangelo c’è tutto». 

L’intelligenza dello sceneggiatore, quando crea un personaggio, deve interrogarsi parecchio su cos’è il bene e cos’è il male. I suoi personaggi come nascono? 
«I primi partivano tanto dall’osservazione del mio quartiere, fra Trastevere e Campo de’ Fiori. Era una Roma piena di artigiani: il calzolaio, il vetraio, il ferramenta, il barista, l’accordatore di pianoforti… Un’umanità semplice in cui raccoglievo modi di fare, di dire, tanta gestualità che ho riproposto soprattutto in teatro e nei primi film, Un sacco bello, Bianco rossoe Verdone e, più avanti, in Viaggi di nozze e Gallo cedrone. Sono sempre andato alla ricerca di persone semplici, ma non sono mai riuscito a rappresentare una persona cattiva. Non m’interessa. Anche Fellini faceva lo stesso. Lui il cattivo lo prendeva in giro, lo sfotteva». 

Nei suoi film, pensando al «cattivo», vengono in mente giusto il truffatore di Borotalco, il politico di Compagni di scuola… 
«Ma sono tutti cialtroni, infatti». 

Il male non vuole farlo vedere o non lo racconta perché non si addice alla comicità? 
«Di male ne vediamo già abbastanza. Sono più di vent’anni che vediamo serie sulla camorra e la ’ndrangheta. Che nascono anche per fare critica sociale e va benissimo. Ma, alla fine, rappresentare di continuo il male tocca i più giovani. Bisogna dare alle persone anche un po’ di speranza. Si dice “il cinema denuncia”. No, il cinema non denuncia un cavolo, se la mattanza diventa un divertimento». 

Sergio, il personaggio di Borotalco, fa cose davvero stupide per conquistare Eleonora Giorgi. Eppure, l’amore è più intelligente di loro perché, alla, fine trova il modo di accoppiarli lo stesso. Come nacquero quei due personaggi? 
«Quel film ha rappresentato per me l’inizio degli anni ’80, in cui c’era bisogno di riappropriarsi del sorriso e della leggerezza, perché venivamo dagli anni di piombo, dalle lotte sociali, dal delitto Moro. Anche la musica cambiava, emergevano grandi cantautori come Lucio Dalla. Sergio e Nadia sono due mitomani, individui innocenti, candidi, che vivono in una nuvola di borotalco. Si uniscono, però, il bacio finale fa capire la solitudine nella quale sono finiti». 

Quello fu il suo primo bacio sul set. 
«Sì e credo sia il bacio più lungo della storia del cinema, perché, mentre ci baciavamo, la macchina da presa ci seguiva per tutti i titoli di coda del film, lunghi tre minuti e mezzo. Il direttore della fotografia disse: vi do io lo stop col megafono. E io: va bene. A me faceva piacere». 

Oggi, cosa direbbe al ragazzino che girava per il quartiere studiando le persone e poi iniziando a imitarle? 
«Che è stato fortunato a nascere quando è nato e a conoscere tanta umanità. Oggi è molto più complicato, oggi, «Un sacco bello», che cerca di raccontare un’estate di tre personaggi, non si potrebbe fare: è cambiato il mondo, sono cambiate le persone. Non c’è più quell’ingenuità che ho raccontato. C’è più cinismo e la maggior parte della gente sta china sul telefonino. E poi c’è l’intelligenza artificiale, che mi fa paura». 

L’Ia fa già anche i film. 
«Ne ho visto uno. Aveva momenti in cui non era male affatto. L’ho mandato ai miei sceneggiatori. C’erano pochissime battute, era un film violento, con atmosfere apocalittiche. Nel messaggio, ho scritto: “Il cinema è finito e semo finiti pure noi”».

19 agosto 2025