Ho conosciuto Teresa Ciabatti a pagina 216 del libro La più amata (Mondadori).
L’accelerata compositiva che c’è in quel punto esatto del romanzo, lo scalare di marcia per prendere la rincorsa e avanzare più forte e più in fretta in direzione di un excipit liberatorio che tuttavia come l’uroboro inghiotte una scena iniziale, è il sorpasso adulto sulla linea continua dell’io narrante bambina insolente, che con un colpo di clacson inaspettato avverte il lettore del passaggio (di testimone) fra la donna intenta a dimenarsi nel vortice di una narrazione catartica che sovrappone, confonde e mistifica passato e presente, e la scrittrice che scandisce e suggella la sua cifra stilistica con voce lucida e disarmante. E spesso disturbante. Ecco: quello scartamento di pagina 216 è stata per me una folgorazione. È lì che la scrittrice prima sconosciuta si è rivelata ai miei occhi in tutta la sua statura. Perché Teresa Ciabatti non trascura ambizioni, ragioni, ossessioni. Non sottace ciò che altri omettono. Esplicita tutto: sdoganando vergogne, disonori, imbarazzi, condizionamenti e convenzioni sociali. Facendo dell’indicibile il suo indice di gradimento.
Teresa Ciabatti ha il coraggio di dire e scrivere ciò che tutti sentiamo e però zittiamo: il bisogno d’amore, la rabbia, la fame di riconoscimento, la vergogna, la messa in scena. La sua scrittura è corpo di dolore, ricordo, trauma, onestà emotiva. Una forma di coraggio sottile e feroce che fa sentire meno soli. E più umani.
Ho amato Teresa Ciabatti leggendo il discorso che si era preparata anzitempo – come se avesse vinto, pressoché certa della proclamazione – per la cerimonia di premiazione allo Strega 2017, dove invece è stato più votato il libro di Cognetti. L’ho amata per la sincerità del gesto e per l’autenticità delle parole, oggetto di un articolo sul Corriere della Sera, emollienti tanto da commuovermi.
L’ho amata e la amo per quella riprova e conferma: l’esercizio di una spudorata innocenza che tutto può e tutto dice, esibizione di un passaporto di verità per la liberazione, prima ancora che per la libertà.
Dietro agli occhiali a farfalla di Celine c’è una donna dallo sguardo curioso e indagatore della psiche umana, che si dichiara senza mezzi termini, in ogni intervista, com’era e com’è: prendere o lasciare. E io ho preso tanto, anche in termini di crescita personale, dalla sua scrittura e dal suo modo di essere: l’ho percepita vicina a tal punto da sentirmi capita e da essere fieramente certa che se le avessi teso la mano lei l’avrebbe afferrata.
Ho conosciuto Teresa Ciabatti per un titolo assegnato a una rubrica sul web, credo si chiamasse “persona cattiva”, o qualcosa del genere. Teresa è così: avverte con un altolà della sua potenziale scompostezza, invece è amorevole; si autoritrae a tinte fosche (protezione dalla delusione?) ma è di una bellezza luminosa; confessa in anticipo, quasi fossero acconti per l’assoluzione; dice di mentire ma è estremamente sincera.
Ho conosciuto più da vicino Teresa Ciabatti in due corsi di scrittura a distanza, fra il 2021 e 2023: lei docente brillante, io allieva matura fra giovani aspiranti autori in collegamento da casa. Mi ha colpito la sua generosità nel dispensare consigli, l’elogio che incoraggia e invita a provare. E in separata sede le attestazioni di stima.
Non ho mai conosciuto Teresa Ciabatti di persona. Non ci siamo mai strette la mano, mai scambiate uno sguardo dal vivo. Non ho partecipato a presentazioni di suoi libri, non ho suoi autografi sul frontespizio di alcun suo romanzo. Eppure con lei ho condiviso qualcosa che raramente accade anche tra amici di lunga data: la sensazione di essere capite al volo senza bisogno di spiegarsi. È bastata una parola, un codice fra noi per stabilire alleanza, e quella parola è bambina.
Con Teresa non ci siamo mai viste, ma ci siamo scritte: pochi messaggi e brevi, alcuni anche autocancellati per effetto di un incauto vanish mode. Parole veloci, timide, ogni tanto interrotte dal silenzio e poi dissolte; confidenze intime, autentiche, nude. Non domande invadenti ma risposte dirette, precise e leali. Non serve incontrare qualcuno fisicamente per avvertirne la vicinanza. A volte basta una frase che scuote, una sintonia che non spieghi, ma riconosci con certezza.
Così è stato con Teresa, animo che sento affine nel comprendere la fragilità, accogliere la vulnerabilità, offrire riparo con indulgenza. Non so se lei direbbe lo stesso di me – affine – ne dubito, ho però la presunzione di starle simpatica. Quando durante le lezioni in videochiamata uno dei miei due gatti rossi, Geremia, si strusciava sulla telecamera e sistemando quest’ultima inquadrava una testa di moro in ceramica di Capodimonte sulla libreria retrostante, Teresa rideva divertita chiedendo di vedere meglio, gatto e soprammobile, ritenendo tutto molto kitsch ho ragione di credere.
Io amo Teresa Ciabatti ed è la mia scrittrice più amata, perché attraverso la sua narrativa ho rivisto e abitato luoghi che conosco: la famiglia come nodo e rifugio, nel bene e nel male, fra sicurezze e stranezze, miserie e alterne fortune.
Non so se un giorno ci vedremo, Teresa e io, in fondo, non è nemmeno necessario. Io Teresa Ciabatti la amo a prescindere, allo stesso modo di come lei ama la sua scrittrice più amata, Joyce Carol Oates, della quale ha preso a prestito il volto per l’immagine del profilo social.
Teresa Ciabatti è la mia scrittrice più amata perché in ogni pagina la sua voce stimola in me la domanda. E insieme la remissione.