Succedeva sei mesi fa, Federico Riboldi, assessore regionale alla Sanità, presentava in pompa magna il nuovo commissario della Città della Salute di Torino, Thomas Schael, portandolo quasi in braccio come una madonna pellegrina, la bela Maria di una rivoluzione sanitaria annunciata come epocale. Le premesse c’erano: Schael arriva e comincia subito a fare quello che nessuno aveva mai avuto il coraggio di fare.
Taglia le convenzioni con le cliniche private, imponendo che le visite intramoenia si svolgano finalmente dentro gli ospedali, come prescrive la legge, e non nelle strutture esterne. I primari borbottano che mancano gli spazi? Lui li trova. I medici protestano che non hanno tempo per aumentare il numero di visite? Schael li obbliga ad accettarne di più, così da ridurre le liste d’attesa che soffocano i cittadini. Una linea dura, che fa subito nascere un braccio di ferro con i sindacati, in particolare con il CIMO, che lo porta in tribunale. E il Tar, con buona pace del manager, dà ragione ai camici bianchi. Una ferita, certo, ma anche la conferma che Schael aveva messo il dito nella piaga.
Da lì, la caduta: prima le voci fatte circolare ad arte, poi le conferme ufficiali. L’assessore Riboldi, quello che fino a ieri mostrava Schael come trofeo vivente della propria azione politica, comincia a stufarsi. Succede ad agosto: improvvisamente il commissario non è più il salvatore della sanità piemontese, ma un problema. Colpa, pare, della troppa esposizione mediatica: Schael finisce troppo spesso sui giornali, guadagna applausi e visibilità, e questo a Riboldi non va giù. Al punto che – raccontano – avrebbe confidato che Schael avrebbe dovuto agire come il dittatore Franco: fare senza dire. Un lapsus che tradisce molto più di quanto sembri. Un assessore che cita Franco come modello non dovrebbe avere in mano la sanità di una regione democratica.
E il governatore Alberto Cirio? In silenzio, neanche una parola. Non è prudenza: è codardia politica. Se Schael fosse davvero un commissario da cacciare solo per eccesso di visibilità, non fa un po’ ridere che il presidente stia zitto come se nulla fosse?
Da qui in avanti uno si aspetterebbe uno Schael che scappa e invece? Lui no! Non si dimette. “Mi devono licenziare, io non me ne vado”, ripete. Anzi, continua a incassare il sostegno di una fetta ampia di cittadini e di molti medici che apprezzano il coraggio di scelte nette e spesso impopolari. Perché a chi aspetta sei, otto, dieci mesi per una visita, poco importa delle beghe tra sindacati e assessorati: importa che finalmente qualcuno abbia provato a tagliare i privilegi e a dare risposte.
Il confronto con il CIMO resta rovente. Proprio in una riunione del 18 agosto, Schael avrebbe dichiarato che “l’overbooking non è mai esistito”, una frase che il sindacato ha preteso fosse messa a verbale, perché in palese contrasto con la sentenza del Tribunale del Lavoro che aveva già condannato la Città della Salute per “condotta antisindacale”.
Il ricorso del CIMO, infatti, era partito contro due pilastri dell’azione del commissario: la volontà di accettare più prenotazioni rispetto ai posti disponibili, così da smaltire più velocemente le liste d’attesa, e lo stop all’intramoenia allargata. Due scelte che il giudice ha bocciato e che Schael, di fatto, non ha ancora corretto.
Così, mentre le altre sigle sindacali preferiscono considerare chiusa la partita, il CIMO insiste: “La sentenza va rispettata, non reinterpretata”. Sul tavolo restano le convenzioni ancora sospese, la libera professione da regolare e un clima avvelenato che non accenna a rasserenarsi.
Il quadro è surreale. Da un lato un commissario che prova a scardinare le abitudini, dall’altro un assessore che lo vuole eliminare perché troppo indipendente, e un presidente che non ha il coraggio di scegliere. In mezzo, i cittadini, che continuano a fare code infinite per una visita, ma che, al contrario della politica, hanno compreso una verità semplice: Schael è l’ultima speranza.
Ed è qui che la questione diventa politica, con la P maiuscola. Perché se davvero Riboldi pensa di disfarsi di Schael solo perché “parla troppo”, allora il problema non è Schael, è Riboldi. È lui ad averlo voluto, esibito e ora tradito. È lui a doversi dimettere. E se non lo farà, deve essere Cirio a cacciarlo. Perché non si può sacrificare un manager che ha osato toccare i nervi scoperti della sanità pubblica per l’ego di un assessore.
In un’altra epoca, nella Prima Repubblica, la vicenda si sarebbe chiusa così: cade il commissario, cade anche l’assessore che l’ha scelto. Oggi invece si preferisce lo scaricabarile, la sceneggiata. Ma i cittadini meritano di più.
Salvare il soldato Schael significa salvare l’ultima credibilità della politica piemontese. Se Schael cade, cade con lui l’idea stessa di sanità pubblica. E se Cirio resterà in silenzio, il silenzio diventerà colpa.
Insomma: Schael deve restare. Riboldi deve andarsene. E Cirio, se ci sei, batti un colpo.
C’è un momento, negli ospedali italiani, che sa di resa e di abbandono. È il pomeriggio. Quando i corridoi si svuotano, i reparti si fanno silenziosi, le porte degli ambulatori restano chiuse. Non è l’effetto di un blackout, non è un’evacuazione. È semplicemente la normalità di una sanità pubblica che si spegne quando dovrebbe, invece, funzionare a pieno regime.
Perché i pazienti ci sono eccome. Le liste d’attesa si allungano come code da dopoguerra, i pronto soccorso scoppiano, i malati cronici hanno bisogno di controlli. Ma i medici – soprattutto i primari – nel pomeriggio non li trovi. Spariti. Volatilizzati. Non è magia: sono altrove, a esercitare la libera professione intramoenia allargata, cioè a fare visite e prestazioni a pagamento.
Uno scandalo che tutti conoscono e nessuno affronta. La legge prevede che l’intramoenia si faccia dentro gli ospedali, ma da anni si chiude un occhio, si concedono deroghe, si lasciano proliferare sistemi paralleli che hanno trasformato il diritto dei cittadini in un bancomat per pochi. Così il malato senza soldi aspetta mesi per una risonanza, mentre chi paga viene visitato in pochi giorni.
E qui emerge l’assurdo: dentro lo stesso sistema sanitario ci sono medici che arrivano a guadagnare un milione di euro l’anno, e altri che faticano a portare a casa lo stipendio di un impiegato. Una forbice indecente, che nasce dal meccanismo perverso dell’intramoenia: i più famosi, i primari con nome e prestigio, costruiscono carriere d’oro sfruttando la vetrina del pubblico, mentre i colleghi restano in corsia a fare i turni di notte e a coprire i buchi, spesso logorati e senza possibilità di crescita. È un sistema che divide, che premia i pochi privilegiati e lascia indietro i tanti che reggono davvero gli ospedali.
Questa non è sanità pubblica. È la sua caricatura. È un tradimento. Perché il Servizio sanitario nazionale è nato per garantire cure uguali a tutti, non per permettere a chi ha costruito la propria carriera nel pubblico di intascare milioni nel privato.
Ed è qui che serve una legge chiara e radicale: o dentro la sanità pubblica o fuori. Basta con l’intramoenia come paracadute. Troppo comodo farsi un nome sfruttando il pubblico e poi fare soldi a palate nel privato. Vuoi lavorare nel pubblico? Resti dentro, con regole certe, stipendi adeguati e vincoli seri. Vuoi guadagnare di più? Allora fuori dai coglioni, e avanti un altro, pagato meglio e messo nelle condizioni di restare in Italia invece di scappare all’estero.
La politica, come sempre, finge di non vedere. Sforna protocolli, piani, tavoli tecnici. Parole vuote, mentre ogni pomeriggio negli ospedali cala il sipario. I cittadini bussano a porte chiuse.
La verità è che non ci servono altre promesse: serve una decisione netta. Eliminare l’intramoenia allargata, riportare i medici dentro gli ospedali, ridare dignità alla sanità pubblica. Perché finché i reparti resteranno deserti, i primari continueranno a correre altrove a fare soldi e i medici “normali” resteranno schiacciati, la sanità pubblica non sarà altro che un guscio vuoto, un monumento alla disuguaglianza.
Il CIMO è uno dei principali sindacati dei medici in Italia. Fondato nel 1947, il suo nome originario è Coordinamento Italiano Medici Ospedalieri, anche se oggi, dopo l’unione con la Federazione Sindacale Medici Dirigenti, si presenta come CIMO-FESMED. Rappresenta in particolare i medici dirigenti ospedalieri del Servizio Sanitario Nazionale, cioè quei professionisti che lavorano all’interno delle strutture pubbliche con ruoli di responsabilità clinica e organizzativa.
Il sindacato ha sempre avuto una linea molto netta e combattiva, ponendo al centro della sua azione la tutela della professione medica e la difesa della libera professione intramoenia (la possibilità per i medici ospedalieri di svolgere attività a pagamento, all’interno e all’esterno delle strutture pubbliche). Negli anni si è distinto per la fermezza con cui ha affrontato le politiche sanitarie nazionali e regionali, spesso in contrapposizione con le direzioni generali e con la politica, rivendicando autonomia decisionale dei medici e migliori condizioni di lavoro.
Rispetto ad altre sigle come Anaao Assomed, Cgil Medici o Cisl Medici, il CIMO ha mantenuto un’impronta più rigida e intransigente, non esitando a ricorrere a vie legali per difendere le proprie posizioni. La sua azione si concentra soprattutto su temi come la contrattazione collettiva, l’organizzazione del lavoro ospedaliero, la gestione delle liste d’attesa e i diritti dei medici dirigenti.