Nel 1986 il sabato sera della televisione italiana era dominato da Fantastico 7, il varietà legato alla Lotteria Italia e condotto da Pippo Baudo. Una macchina di ascolti e di spettacolo che sembrava destinata a ripetere il rituale rassicurante dell’intrattenimento televisivo, provocò due crisi. La prima arrivò dopo uno sketch del trio Lopez-Solenghi-Marchesini. I tre comici portarono in scena una parodia dell’Ayatollah Khomeini, allora Guida suprema dell’Iran. Un momento satirico, nato con leggerezza, che provocò l’immediata protesta ufficiale dell’ambasciata iraniana e costrinse la Farnesina a un intervento distensivo per evitare che la satira di un varietà diventasse affare di Stato.

Poi arrivò Beppe Grillo, che decise di andare oltre la satira di costume e di puntare dritto al cuore della politica. Prese di mira Bettino Craxi, presidente del Consiglio e leader del Partito Socialista, ironizzando sui rapporti tra il Psi e la Cina di Deng Xiaoping. Disse che i socialisti andavano a Pechino “per affari”, alludendo a trame opache e affari poco limpidi. L’allora presidente della Rai, Enrico Manca, bollò la tv di Baudo con un termine che segnò un’epoca: “nazional popolare”. Nelle intenzioni voleva essere una definizione riduttiva, quasi un marchio di banalità, di tv per le masse senza spessore culturale. Ma per Baudo quella era una vera e propria offesa. Il conduttore, che aveva sempre difeso la sua idea di servizio pubblico come mediazione tra cultura alta e intrattenimento popolare, non poteva accettare quell’etichetta. Così, nell’ultima puntata di Fantastico 7, quando milioni di italiani erano incollati davanti alla tv per l’estrazione dei biglietti della Lotteria Italia, decise di rispondere pubblicamente al suo presidente. Con tono fermo, quasi di sfida, disse: “Considero questa definizione un’offesa. Il presidente Enrico Manca rilascia spesso interviste, anche troppe. Vuol dire che d’ora in poi farò programmi regionali e impopolari”.

Dietro quelle parole c’era un tema di fondo che andava ben oltre la polemica personale: qual è, davvero, il senso del servizio pubblico in Italia? La vicenda di Fantastico 7 dimostrò che il varietà non era soltanto un contenitore di canzoni e balletti, ma un luogo in cui potevano irrompere temi scomodi, battute corrosive, provocazioni capaci di scuotere il Palazzo. La reazione di Manca e del sistema politico di allora mostrò invece quanto fosse difficile accettare che la televisione pubblica diventasse anche strumento di critica, e non solo di consenso. A quasi quarant’anni di distanza, quell’episodio resta di bruciante attualità. L’interrogativo aperto allora non si è mai chiuso: la Rai deve limitarsi a intrattenere e a rappresentare in modo rassicurante l’identità nazionale, oppure ha il dovere di ospitare anche la satira, la critica, la provocazione, assumendosi il rischio del conflitto con il potere?

La risposta di Baudo a Manca fu ironica, ma in fondo molto seria. Nel difendere la dignità del suo lavoro e del pubblico, rivendicava l’idea che il servizio pubblico non dovesse essere rinchiuso in categorie svilenti, ma dovesse rimanere aperto, inclusivo e, quando serviva, persino impopolare. Con quel Fantastico 7 Pippo Baudo non mise in crisi soltanto i rapporti tra spettacolo e politica: senza volerlo, mise in scena la contraddizione più profonda della televisione pubblica italiana, sospesa da sempre tra necessità di fare ascolti e aspirazioni di autorevolezza culturale.

Tullio Camiglieri