droni a fibra ottica

Come i droni a fibra ottica stanno cambiando la guerra in Ucraina

di Vincenzo Leone e Alina Poliakova

Le guerra in Medioriente successive all’11 settembre e che hanno stravolto l’America e lo scenario internazionale, sono finite già sul grande schermo in opere cinematografiche di grande caratura artistica. Si va da American Sniper di Clint Eastwood, a 13 Hours: The secret Soldiers of Bengazi di Michael Bay, per poi passare a The Outpost di Rod Louire, Nella valle di Elah di Paul Haggis e The Hurt Locker di Kathryn Bigelow. Ma questo film è un discorso a parte, è un’opera cinematografica con cui Alex Garland dimostra ancora una volta di essere capace di recuperare le lezioni dei grandi maestri del passato, per creare qualcosa di nuovo, di rivoluzionario. Warfare nella sua essenza di assedio tambureggiante, di assedio senza scampo, ha qualcosa di Distretto 13 di John Carpenter, può far tornare alla mente anche Il Grande Uno Rosso di Sam Fuller, Black Hawk Down di Ridley Scott. Sarebbe invece un errore pensare che abbia molti punti in comune con Salvate il soldato Ryan di Steven Spielberg, perché concettualmente è un’opera completamente diversa. Per quanto vi siano similitudini nella rappresentazione della guerra come movimento perenne, Alex Garland non ama la dimensione colossal, quanto piuttosto quella fatta di primissimi piani, dettagli, luci ed ombre per stringerci dentro un labirinto claustrofobico, dove la guerra si ascolta più che essere vista. In questo, Warfare strizza molto più l’occhio a Dunkirk di Christopher Nolan, con l’assenza che diventa presenza, l’invisibile che schiaccia il visibile, il tempo che diventa nemico e tiranno dei protagonisti. Detto questo, non mancano scene di grande impatto visivo, ma da war movie, in breve il film di Garland diventa più un survival.

Un racconto in armi fatto di invisibilità, paura e tensione

Alex Garland il nemico lo rende simile agli indiani di John Ford, sono annunciati dai suoni, non tamburi tribali ma proiettili e prima ancora il silenzio, quel silenzio che preannuncia una tempesta senza scampo. Siamo distanti naturalmente dalla retorica action a stelle e strisce di 12 Strong, Lone Survivor o Act of Valor, non esiste valore o coraggio, esiste solo il caso, il caos, la guerra per Garland è la mancanza di controllo e logica. Straordinaria come sempre nella cinematografia di Garland l’estetica, con la fotografia di David J. Thompson che esalta i colori bruniti di mattoni, muri, polvere, degli interni che avvolgono corpi martoriati, urla, il sangue, la disperazione crescente. Warfare ci fa sentire il caldo opprimente, lo stress di questi uomini sempre più convinti che nessuno verrà a salvarli, che quella casa diventerà la loro tomba. Perfetto il montaggio di Fin Oates, che permette a Garland di dare un ritmo sincopato e fluidissimo all’insieme. Quasi assente la colonna sonora, e anche questo è un elemento di grande intelligenza, visto il fine dichiarato di riportare in vita veri uomini, veri scontri, la vera guerra per come il pubblico non l’ha mai veramente vista in questi anni. Se con Civil War Garland ha messo il punto sul probabile futuro dell’America, creato una metafora distopica ma non così immaginifica su un paese distrutto delle proprie divisioni, qui invece ci parla del suo peccato di inizio secolo. Un film politico? In modo indiretto ma certamente, per quanto paradossalmente, essendo un motore che va sempre a mille, si allontani da qualsiasi analisi nel merito, e non potrebbe essere altrimenti.