Ascolta la versione audio dell’articolo
Intel, un tempo sinonimo di leadership tecnologica americana, cerca di risollevarsi dopo anni difficili. A darle fiducia, in questi giorni, sono arrivati due interlocutori inattesi: da un lato SoftBank, con un assegno da 2 miliardi di dollari. Dall’altro la Casa Bianca, che valuta un ingresso diretto nel capitale.
La holding giapponese guidata da Masayoshi Son acquisterà azioni Intel a 23 dollari l’una, poco sotto le quotazioni di mercato, assicurandosi circa il 2% del capitale. Una quota modesta, ma sufficiente a renderla il sesto maggiore azionista del gruppo. La mossa si inserisce nella strategia di Son di presidiare la corsa all’intelligenza artificiale: dopo Arm e il progetto da 500 miliardi per il maxi-datacenter Stargate, l’approdo in Intel offre accesso a infrastrutture produttive decisive. «I semiconduttori sono alla base di ogni settore», ha spiegato Son, presentando l’operazione come un investimento strategico prima ancora che finanziario.
Per SoftBank il calcolo resta comunque anche economico: la capitalizzazione di Intel (oltre 100 miliardi) appare sottostimata se confrontata con il valore degli asset industriali e immobiliari. Non a caso, all’annuncio il titolo ieri ha guadagnato fino all’11%, mentre SoftBank ha lasciato sul terreno il 4% a Tokyo.
Lo Stato primo azionista?
Se Tokyo muove in chiave industriale e geopolitica, Washington guarda invece alla politica economica interna. L’amministrazione Trump valuta di convertire fino a 10,9 miliardi di dollari del Chips and Science Act in una partecipazione di circa il 10%, che varrebbe la leadership tra gli azionisti. Sarebbe un cambio di passo rispetto ai sussidi decisi sotto Biden: niente più trasferimenti a fondo perduto, ma quote di capitale in cambio di fondi già stanziati. «Non si tratta di governance», ha chiarito il segretario al Commercio, Howard Lutnick, confermando a Cnbc le trattative con Intel. «Stiamo semplicemente convertendo in capitale quella che era una sovvenzione. Perché regalare miliardi a un’azienda da 100 miliardi di market cap senza un ritorno per i contribuenti?». L’eventuale partecipazione del governo, in effetti, sarebbe priva di diritti di voto. Prudente il segretario al Tesoro, Scott Bessent: «L’ultimo dei nostri obiettivi è costringere le aziende americane a comprare chip Intel. La posta in gioco è solo stabilizzare la società e garantire produzione domestica». In controluce si legge anche una valenza diplomatica: Tokyo contribuisce a rafforzare un campione industriale americano e in cambio spera di stabilizzare i rapporti commerciali con Trump (attualmente dazi al 15%).
Il peso dei conti in rosso
Per il gigante di Santa Clara, intanto, i numeri restano pesanti. Il secondo trimestre 2025 è terminato con 2,9 miliardi di rosso, dopo la perdita record di 18,8 miliardi del 2024, la prima dal 1986. Se i ricavi (12,9 miliardi) hanno battuto le attese, la pressione competitiva resta forte: AMD avanza nei server, Nvidia domina l’AI e la big taiwanese TSMC mantiene la supremazia produttiva. Il ceo Lip-Bu Tan, insediato a marzo dopo l’uscita di Pat Gelsinger e inizialmente attaccato da Trump, ha varato un piano drastico: ridurre l’organico a 75mila unità entro fine anno (rispetto a quasi 109mila di inizio 2024), con oltre 25mila uscite tra licenziamenti e blocchi del turnover. Sono stati cancellati i progetti di nuove fabbriche in Germania e Polonia, mentre la costruzione del grande impianto in Ohio procede a rilento. L’assemblaggio è stato spostato dal Costa Rica verso Vietnam e Malesia.