La società dello spettacolo di Guy Debord – un testo complesso e talvolta anodino, scritto nel 1967 – non sarà mai abbastanza citato quando si parla della situazione mondiale odierna. Anche se la riduzione del mondo a spettacolo è passata nel frasario comune, tale processo di consapevolezza non è avvenuto con quella profondità che, forse, avrebbe aiutato la collettività a generare anticorpi. Al momento né gli anticorpi verso la spettacolarizzazione del mondo né la collettività che ne dovrebbe essere portatrice esistono. In questo tragico frangente ci sono soltanto singoli individui perplessi e sgomenti, che sentono l’atroce sfida che il potere lancia all’umanità e percepiscono l’insufficienza delle risposte: troppo poche, per la gravità della situazione, e anche troppo deboli ideologicamente. In ogni caso, meno male che qualche reazione, di fronte alla spudorata violenza del potere, nel mondo c’è: non è detto che l’insufficienza attuale non sia il lievito per una forte reazione futura.

Sono partita dalla fine, e cioè dall’augurarmi che ci sia una speranza attiva e in grado di ravvivare le coscienze della moltitudine. Ora torno nel mondo infero ridotto a spettacolo, in questo caso uno spettacolo che rientra a pieno titolo nel genere horror. Per chi non l’avesse visto, raccomando di recuperare la puntata del programma di Monica Maggioni NewsRooms, dedicato ad alcuni aspetti dell’America della Silicon Valley. Si tratta di un documentario con un crescendo ben studiato. Partiamo da un primo quadro, in cui vengono mostrati signori danarosi che, attraverso metodi scientifici o presunti tali, con l’aiuto di apprendisti stregoni, si danno da fare per abbassare la loro età biologica, alla ricerca di una eterna giovinezza. L’insieme appare piuttosto inquietante e rimanda non tanto alla mitica fonte dell’eterna giovinezza quanto alle efferatezze della contessa Báthory. Ma questo non è niente. Nel servizio che segue la giornalista intervista un costruttore di bunker anti-atomici. Apprendiamo che Zuckerberg sta costruendosi un mega-bunker nella sua villa nell’isola di Kauai; non rinunciano al bunker né Bezos, né Thiel, né Musk. Bisogna sentirlo e vederlo Ron Hubbard, CEO di Atlas Survival Shelters di Montebello, California. Ci presenta la sua impresa per miliardari e, a un certo punto dell’intervista, si avvicina a una specie di piccolo oblò e rivolto alla giornalista le chiede: «Sai cos’è questo? Questo è un buco per lanciare una granata. Lo puoi aprire, lanciare una granata e così fai fuori le persone che stanno davanti al bunker. Oppure puoi sparare» (mima il gesto e fa anche bum-bum-bum, come i bambini quando giocano). Guardiamo sgomenti Ron, grande e grosso e apparentemente bonario, che ora sembra l’attore di un film distopico. O forse siamo noi che siamo piombati in una distopia reale, come conferma la terza parte del programma, in cui arrivano i pronatalisti i quali, letteralmente, sono impegnati a fare figli per evitare «il crollo del nostro mondo, del sistema economico globale e di quello geopolitico». Attenzione, non si tratta soltanto di incrementare le nascite; tutto programmato, una gravidanza, nove mesi di riposo e poi l’impianto di un embrione selezionato geneticamente. Eccoci sprofondati nell’eugenetica. Tutte queste cose orribili vengono raccontate da una giovane coppia, faccia di plastilina e occhialoni dalla pesante montatura nera alla moda. Il padre sostiene che l’istruzione pubblica condiziona i bambini e li fa diventare di estrema sinistra. Meglio l’intelligenza artificiale? Sì, meglio l’AI che affidare i propri figli a “un tizio con il salario minimo”. Insomma, l’intelligenza artificiale non è infallibile ma è sempre meglio degli insegnanti delle scuole pubbliche.

Nel mondo infero italiano ridotto a spettacolo si muovono personaggetti meno inquietanti di quelli che popolano la Silicon Valley. L’ultimo che mi ha davvero colpito e fatto riflettere è Pietro Senaldi, il quale, commentando le parole di Cuzzocrea, che aveva appena confrontato le immagini del disastro di Hiroshima con le macerie di Gaza, replica dicendo che l’imperatore Hirohito, quando ha visto quelle macerie, si è arreso. Punto. Una volta tanto una lezione ci viene da Senaldi: non è una bella lezione, naturalmente. Ma a fronte dei tanti giri di parole e distinguo che hanno caratterizzato la prima fase dei commenti sullo scontro tra Stato di Israele e popolo palestinese, a fronte della cautela che la parte “progressista” nostrana usava per non incorrere nel sospetto di antisemitismo, la brutale franchezza del condirettore di Libero fa quasi tirare un sospiro di sollievo. E spero che tutti ricordino per quanti mesi non si è potuto parlare del massacro degli inermi palestinesi senza prima citare quel che era successo il 7 ottobre.

Ecco cosa hanno fatto per lunghi mesi i benpensanti: tergiversare. Adesso questa incertezza risuona, quasi come un’eco residua, nelle parole di uno dei tanti gazzettieri di regime: bisogna distruggere Hamas, ergo bisogna bisogna distruggere il popolo palestinese nei limiti del possibile, perché la pace, quella “lunga e duratura” che tutti i potenti del mondo ipocritamente invocano, non sia altro che la pax romana: “Ubi solitudinem faciunt, pacem appellant, la cui versione comune è: “Fecero un deserto e lo chiamarono pace”. Queste parole divenute proverbiali vengono pronunciate da Calcago, capo dei Caledoni, che si rivolge ai molti uomini convenuti in armi in Britannia per contrapporsi ai Romani. Così scrive Tacito, alla fine del I secolo d.C.: lo storico latino, ancorché intenzionato a lodare il valore militare del suocero Agricola, rende onore al capo di coloro che saranno destinati ad essere vinti.

Quando ripenso alle cause della guerra e alla terribile situazione in cui versiamo, nutro la grande speranza che questo giorno, che vi vede concordi, segni per tutta la Britannia l’inizio della libertà. Sì, perché per voi tutti qui accorsi in massa, che non sapete cosa significhi servitù, non c’è altra terra oltre questa e neanche il mare è sicuro, da quando su di noi incombe la flotta romana. Perciò combattere con le armi in pugno, scelta gloriosa dei forti, è sicura difesa anche per i meno coraggiosi. [I Romani] predatori del mondo intero, adesso che mancano terre alla loro sete di totale devastazione, vanno a frugare anche il mare: avidi se il nemico è ricco, arroganti se povero, gente che né l’oriente né l’occidente possono saziare; loro soli bramano possedere con pari smania ricchezze e miseria. Rubano, massacrano, rapinano e, con falso nome, lo chiamano impero; infine, dove fanno il deserto, dicono che è la pace.

Lascio giudicare a chi legge quanto queste parole siano tragicamente adatte alle nostre guerre e, in particolare, a quel massacro che non dovrebbe essere definito guerra ma, appunto, massacro, che è la ripugnante aggressione del Governo israeliano al popolo palestinese, neonati e bambini compresi, poiché «il nemico non è Hamas, né l’ala militare di Hamas», come ha dichiarato qualche tempo fa Moshe Feiglin, ex membro del Parlamento israeliano e presidente del partito Zehut/Identity. «Ogni bambino a Gaza è un nemico. Dobbiamo occupare Gaza e colonizzarla, e non lasceremo lì un solo bambino di Gaza. Non c’è altra vittoria». Che orrore!

Insomma, il mondo retrocede verso la barbarie. Trump, emblema del nostro tempo, merita una trattazione a parte: qua mi limito a chiudere il cammino a ritroso che ho tratteggiato. Non trovo nessuna citazione più confacente a Trump di una famosa frase di Sallustio: impune quae libet facere, id est regem esse. Il presidente americano si crede il re del mondo e, con lui, una pletora di capi e capetti di rango inferiore brandisce la clava della sovranità in spregio a ogni idea di democrazia e non esita ad andare oltre il ridicolo. “Essere re significa fare impunemente ciò che si vuole”: è vero, ma soltanto sino a quando il popolo, che davvero è moltitudine sovrana, non si rivolta. Come l’imperialismo, anche il moto regressivo verso l’assolutismo è una tigre di carta. “No Kings”, urlavano a giugno di quest’anno in America. Ricordiamo: “Non bisogna avere paura di una cosa perché è grande. Ciò che è grande è destinato a essere rovesciato da ciò che è piccolo. Ciò che è piccolo diventerà grande”.