Fino a che punto le colpe dei padri ricadono sui figli e possono condizionare la loro progenie? Questo l’interrogativo che soggiace al romanzo Il sogno del pescatore di Hemley Boum (edizioni e/o, traduzione dal francese di Alberto Bracci Testasecca, Collana Dal Mondo, pp. 304, euro 18,50), già vincitore tra gli altri del Grand Prix Afrique 2025. Saga epica quanto tragica di una famiglia in quattro generazioni dal Camerun alla Francia, è la storia di Zack, che fugge dai fantasmi del suo passato e una madre prostituta alcolista diventando psicologo clinico a Parigi, ma il suo riscatto e la reinvenzione di una nuova vita lontano dalle tare dei suoi avi dovranno necessariamente passare per il recupero delle origini e l’analisi del trauma collettivo che ha devastato un’intera comunità, minacciando irreparabilmente l’ecosistema in cui questa abitava prima del colonialismo.
VISSUTA PER SECOLI in uno stato di grazia quasi primordiale e in comunione profonda con la natura nelle foreste attorno al delta di un fiume sull’oceano Atlantico, la comunità di pescatori di suo nonno Zacharias viene stravolta dall’arrivo di una potente multinazionale e il suo stile di vita tradizionale si perde per sempre, schiacciato dai soprusi e dalle logiche perverse del capitalismo.
La narrazione si apre con una descrizione paradisiaca e mitica: nel punto in cui il fiume si getta nell’Atlantico l’acqua è color ardesia e tumultuosa, ma man mano che si allontana dalla costa si stempera in sfumature di grigio sempre più chiare fino a riflettere il colore del cielo. In quei territori generosi e fertili, tra centinaia di fiumi nella foresta, giacinti d’acqua e mangrovie, risiedono antenati e spiriti in comunione panica con i viventi, e nei racconti per bambini l’unione del fiume femmina e dell’oceano maschio è come quello di sposi litigiosi: «il fiume femmina si riempie di un’acqua estranea, come una donna incinta», evoca poeticamente ed echeggia quasi fragorosamente Boum, «e l’oceano maschio non riesce più ad accoglierla con serenità, allora si stizzisce, si arrabbia, trabocca e le piscine naturali che si formano tra la costa e i banchi di sabbia sono furiose».
TRA QUESTE ACQUE navigano e trovano di che sostentarsi da sempre i pescatori, con piroghe ricavate da un unico blocco di padouk che grazie alla forza dell’acqua e del sale, si affina, si indurisce e si leviga, liberando l’anima contenuta nel legno grezzo.
Zacharias, pescatore coraggioso e inquieto, devoto unicamente al suo mare e alla sua amata Yalana, vede il suo sogno di una vita semplice e una famiglia felice infrangersi con la creazione di una cooperativa, l’introduzione dei pescherecci, l’intromissione di una società di sfruttamento boschivo e la creazione di una stazione balneare che portano a un inesorabile indebitamento, trasformando i pescatori da frugali a poveri, ingenerando espropriazioni ed esodi, e con essi avidità, rancori e azioni criminose, fino alla distruzione e dispersione dell’intero nucleo familiare.
«LA MODERNITÀ aveva bisogno di cancellare le esperienze antiche diventate obsolete e folkloristiche e il cammino del progresso veniva aperto dagli importanti e rapidi cambiamenti imposti alla popolazione», osserva amaramente l’autrice, denunciando a un tempo gli imperialismi europei in cerca di nuovi territori e facili guadagni ma anche la corsa sfrenata allo sviluppo dopo l’indipendenza (richiamando alla mente la sorte delle popolazioni Ogoni nel delta del fiume Niger, con l’atroce impiccagione nel 1995 di Ken Saro-Wiwa, poeta e attivista che se ne fece portavoce e difensore schierandosi contro i colossi delle multinazionali petrolifere).
Se i protagonisti maschili del romanzo si lasciano ammaliare e sovrastare dai bagliori della modernità ma ne vengono travolti e sconfitti, saranno le donne, con il loro amore incondizionato e la loro saggezza atavica, a farsi carico della sopravvivenza del mondo e a fornire a una progenie dispersa vie inedite di riconciliazione con il proprio destino.