di
Walter Veltroni
Lo psicologo Crepaldi: «Il ritiro arriva solo dopo una fase di isolamento sociale. I ragazzi interrompono ogni rapporto, i genitori sappiano mettersi in discussione»
Marco Crepaldi, psicologo, è il presidente dell’associazione Hikikomori Italia che si occupa da vicino di una realtà che riguarda la vita di decine di migliaia di adolescenti e delle loro famiglie. Un disagio nuovo, profondo, terribile.
Proviamo a dare una dimensione quantitativa al fenomeno.
«Tutti gli studi, anche quelli dell’Istituto superiore di Sanità o del Cnr, si concentrano sulle scuole secondarie e valutano che i ragazzi che si trovano nella prima fase, quella dell’abbandono della socialità, siano tra i cinquantamila e i settantamila. Esiste poi una fase due, quella dell’abbandono scolastico. Ma abbiamo censito numerosi casi di fase tre, quando la porta della stanza dei ragazzi si chiude e finiscono i rapporti con i genitori, che non riescono più a comunicare. In tutto si può parlare, è una stima, di duecentomila casi».
Definisce le tre fasi?
«La prima è quella che in letteratura viene chiamata pre-hikikomori. Il ragazzo o la ragazza va a scuola spesso con difficoltà, con manifestazioni di insofferenza e un rifiuto saltuario di recarsi in aula. E poi ci si ritira da tutto, dallo sport, dalle uscite con gli amici. Il vero rischio è che lo stress legato all’ansia del giudizio, alla paura del confronto con i pari, porti a un burnout, a un esaurimento delle energie nervose e motivazionali che spingono un adolescente ad andare avanti, nonostante le difficoltà. Lì comincia l’abbandono scolastico. Gli hikikomori poi non sono molto collaborativi, negano di avere un problema. E questo mette in confusione insegnanti e genitori».
La fase due?
«È quella conclamata: il ragazzo non va più a scuola e quindi si comincia a cercare di capire cosa fare. Spesso in questa fase si commettono degli errori: staccare internet, pressare il ragazzo a tornare a scuola con le minacce. Bisogna invece valutare con la scuola un piano didattico personalizzato che possa aiutare il ragazzo a trovare una propria dimensione anche all’interno di uno spazio che gli appare faticoso, stressante, spesso anche a causa del bullismo o delle pressioni per i voti».
La fase tre è la più drammatica.
«È quella dove si rompe l’alleanza genitore-figlio. Padre e madre vengono vissuti come una fonte di ansia sociale equiparabile a quella da cui si fugge nella società. Io scappo dalla scuola perché mi mette ansia, scappo dai genitori perché mi mettono ansia. A quel punto la situazione si aggrava. Se un ragazzo non esce più dalla camera da letto anche i genitori hanno margini di manovra molto bassi. Per questo noi costituiamo gruppi di auto aiuto per genitori in tutta Italia, per sostenerli nella ricostruzione di questa alleanza, necessaria».
Sono più ragazzi o ragazze?
«Sono soprattutto uomini, questo è un dato che nella nostra associazione è emerso con chiarezza. Abbiamo fatto due sondaggi a distanza di sei anni e su dieci genitori che ci contattano, otto hanno figli maschi. E sembrano mediamente anche più gravi, nel senso che i casi più cronici, quelli che sono isolati da dieci, vent’anni e che non danno segni di miglioramento, sono spesso maschi. Secondo il Cnr, l’isolamento moderato, quello pre abbandono scolastico, è trasversale tra ragazze e ragazzi».
Il libro di Jonathan Haidt, «La generazione ansiosa», mette in relazione l’ansia diffusa con l’arrivo dello smartphone.
«Gli studi sono concordi nel certificare l’impatto sull’ansia sociale di questi strumenti e sicuramente l’ansia sociale innesta un circolo vizioso. Un po’ come l’hikikomori. Cioè più tu scappi, più alimenti la paura, più la paura ti schiaccia. Bisognerebbe gradualizzare l’accesso ai mezzi e soprattutto fare educazione digitale. Ma questo si scontra con le multinazionali, che vogliono ragazzi dipendenti dallo smartphone. La regolamentazione andrebbe fatta a monte, cioè da chi progetta o regola questi strumenti ormai evidenziati dalla letteratura scientifica come disfunzionali nella crescita, soprattutto dei giovani».
Le cause dell’hikikomori quali sono?
«I giovani di oggi avvertono forti pressioni di realizzazione sociale. La società sta accelerando la sua velocità e chiede risultati di successo presto, troppo presto. I social hanno aumentato il confronto sociale con altre persone alimentando la paura di non essere all’altezza, di rimanere fuori.
Ma ci sono altri fattori: l’hikikomori non sembra essere presente nelle nazioni più povere del mondo. È un ritiro sociale possibile solo nei Paesi ricchi che possono fornire garanzie a livello familiare o di welfare, che possono sostenere delle persone inattive. Gli hikikomori si ritirano perché hanno un’alternativa. Sì, lo fanno perché stanno male. Però questo non significa rinunciare ai benefit, al cibo, al calore della casa, ma significa rinunciare alla vita sociale. Se in passato il lavoro non era opzionale per l’essere umano, oggi lo diventa, per molti».
C’entra il cambiamento della famiglia?
«Sì. Oggi si fanno meno figli. Tre delle nazioni con il maggior numero di hikikomori sono Giappone, Corea del Sud e Italia che hanno in comune la denatalità. Meno figli significa maggiori pressioni sui propri, maggiore desiderio di proteggerli. L’hikikomori sembra essere un fallimento nello step evolutivo di transizione dall’adolescenza all’età adulta, tanto che uno dei primi psichiatri che parlò di hikikomori in Giappone, Tamaki Saito, scrisse un libro dal titolo eloquente, cioè “Adolescenza senza fine”. L’hikikomori sembra un adolescente che non riesce a diventare adulto, non riesce a lavorare, non riesce a separarsi dalla famiglia e non riesce a farlo perché ha sviluppato un legame morboso con i genitori. Rapporto che non riesce a spezzare. Non riesce a costruire un’identità autonoma rispetto alla famiglia e questo dipende anche dal fatto che i genitori oggi sono molto protettivi, molto invadenti. Tutto ciò interferisce con le fisiologiche dinamiche di separazione identitaria».
Pesano il deficit della speranza, la paura della guerra, i problemi ecologici, il senso di precarietà?
«Si ritirano da una società che non sentono aderente ai propri valori morali e a questo contribuiscono lo scenario politico, il cambiamento climatico e un irresponsabile terrorismo mediatico. Oggi i giovani si informano soprattutto sui social e sui social prevalgono notizie ansiogene, negative, pessimistiche. C’è anche il fenomeno del doomscrolling, dello scrollare compulsivamente alla ricerca di notizie che siano portatrici di stress.
Questo genera un immaginario del futuro particolarmente negativo nei giovani. C’è una perdita di senso, non si trova più neanche la voglia di lottare. L’hikikomori, in definitiva, è l’opposto dell’attivismo.
L’hikikomori non pensa che la società possa essere cambiata e che sia inevitabilmente destinata al collasso. Quindi qualunque sforzo nel presente è privo di significato».
Questi ragazzi passano il loro tempo sui social, cosa trovano?
«Trovano polarizzazione e semplificazione. Tutto diventa bianco o nero e non c’è spazio per la discussione. Si irrigidiscono dal punto di vista ideologico e sono affascinati da piccoli gruppi online molto radicalizzati. Quelle che vengono chiamate echochambers, dove tutti hanno la stessa opinione e dove ovviamente poi si tende, sia a destra che a sinistra, ad essere affascinati da soluzioni semplicistiche.
C’è il fenomeno degli incel che si interseca con quello degli hikikomori. Gli incel sono gruppi di uomini che si radicalizzano contro le donne e diventano misogini a causa di un disagio legato alla sfera psicosessuale».
Quanto pesa sui ragazzi il giudizio degli altri, specie quello implacabile e di dominio pubblico dei social?
«Oggi siamo tutti a rischio, siamo permanentemente giudicati da migliaia di persone sui social. Questo cambia le dinamiche sociali e diviene una minaccia costante, un senso di oppressione per cui non riusciamo a separarci dall’ ansia. Negli hikikomori questa paura del giudizio, questa ansia del fallimento, è costante. Non riescono a liberarsi da questa inquietudine, che li bracca. E così l’unico modo di sopravvivere è nascondersi».
Com’è la giornata di un ragazzo hikikomori?
«Un elemento chiave è l’inversione del ritmo sonno-veglia. La maggior parte di questi ragazzi tende a dormire di giorno e a star svegli di notte. Per giocare ai videogiochi, per stare sui social, ma spesso anche per evitare di incontrare i genitori.
Perché quello di cui hanno paura è proprio che il genitore gli faccia domande sul loro futuro, sulle loro intenzioni. Soprattutto se sono isolati da anni».
Cosa cercano in rete o nei videogames?
«Quando si svegliano iniziano subito a giocare, a stare al computer, a guardare serie tv.
I videogiochi sono uno strumento per sfogare rabbia, stress, frustrazione. C’è anche un tema di violenza domestica: gli hikikomori usano aggressività verbale, ma a volte anche fisica, nei confronti dei genitori. Lo fanno per la frustrazione enorme che vivono e non riescono ad ammettere. L’hikomori non ammette di avere un problema, è un orgoglioso.
C’è chi parla con i genitori, pranza o cena con loro, altri che invece non escono mai di camera.
Molti hikikomori tendono a dormire più di dieci ore al giorno. Questo è un tema spesso legato alla depressione. Sono tutte modalità per non pensare al futuro. Perché l’hikikomori non vede il futuro, e se ci pensa sta male».
Quand’è che la porta si chiude definitivamente?
«Dopo anni di isolamento. Nel momento in cui un disagio psicologico non viene adeguatamente affrontato, va alla deriva. E purtroppo l’hikikomori è proprio un intrinseco meccanismo di autoalimentazione: più uno è isolato, più perde competenze sociali, più si sente indietro rispetto agli altri, più vive con ansia la prospettiva di ritornare nella società.
Per molti hikikomori la vita è irrimediabilmente compromessa, non si può più tornare indietro, non si può più recuperare il tempo dilapidato. Per aver perso un anno scolastico sentono che la loro vita è inutile. È assurdo, ma è il modello sociale che è stato costruito, che non ammette buchi nel curriculum, non ammette pause, non ammette défaillance».
I primi segni che bisogna tener d’occhio?
«Sono difficili da cogliere perché si mischiano e si intersecano con l’adolescenza.
Sono manifestazioni di chiusura nei confronti dei genitori, il non aprirsi emotivamente, il non comunicare le proprie emozioni. Ma uno dei campanelli d’allarme più chiari è l’insofferenza scolastica.
È un segnale d’allarme che dovrebbe attivare il consiglio di classe per valutare l’adozione di un Piano didattico personalizzato prima che si arrivi alla fase due, al rifiuto della scuola.
Il disagio può essere riconosciuto più dagli insegnanti che dai genitori perché il ragazzo a rischio hikikomori è quello che non si alza al cambio dell’ora, che all’intervallo non parla con nessuno, che nell’interrogazione orale suda e manifesta ansia.
A casa, il segno è il rifiuto della socialità. Se un ragazzo comincia ad abbandonare lo sport, le uscite con gli amici, di giorno sta sempre chiuso in camera da letto, quello è il momento in cui intervenire».
Quale consiglio per insegnanti e ai genitori?
«Agli insegnanti di formarsi, di studiare questo problema e di essere più flessibili. Questo disagio non è un capriccio, è un problema serio. Non accettiamo mai che la scuola diventi un centro di sopravvivenza. Un luogo in cui chi riesce a farcela diventerà forte e chi non ce la fa verrà espulso dal sistema. Il consiglio è non bocciare con l’illusione che questo serva a stimolare, perché in questi casi bocciare vuol dire condannare all’inizio dell’isolamento.
Spesso la scuola se ne lava le mani: se il ragazzo non viene a scuola io lo devo bocciare. Il consiglio che danno ai genitori è: ritirate questo ragazzo e fategli fare la scuola da privatista, scaricando il problema sulla famiglia».
E i genitori?
«Non ridimensionare, mettersi in discussione, fare un percorso personale, non pensare che il problema sia solo del figlio, ma avere coscienza che il problema è familiare. Questo vuol dire partecipare ai gruppi con altri genitori, fare percorsi psicologici individuali, mettere al primo posto il benessere del figlio e non le aspettative che abbiamo su di lui.
Un genitore spesso cerca di mettere paura al figlio. Guarda che se non ti diplomi non farai niente della vita, guarda che se non esci con i tuoi amici sei uno sfigato. Cerca, ingenuamente, di utilizzare la paura per smuovere questi ragazzi. Ma questi ragazzi di paura ne hanno già troppa. E quando la paura è troppa non genera reazione, ma stimola alla fuga.
Io genitore devo usare lo strumento opposto: l’ascolto, la pazienza, la non fretta. Devo alimentare non la paura, ma la speranza».
20 agosto 2025
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