Dei quasi 400mila bambini nati in Italia nel 2023, si stima che meno di 400 non siano stati partoriti in un ospedale. Sono quindi una piccolissima minoranza le donne e le coppie italiane che scelgono di far nascere i propri figli in casa o in case di maternità, cioè strutture private gestite da sole ostetriche. Ci sono però grosse differenze da regione a regione, perché solo alcune hanno leggi che regolamentano il parto extraospedaliero, e ancora meno offrono rimborsi delle spese sanitarie a chi lo sceglie.
Negli ultimi giorni nella comunità online interessata alla genitorialità si è discusso parecchio proprio dei parti in casa, perché in Australia è stata arrestata un’ostetrica italiana che offre questo servizio, e che aveva un certo seguito sui social network. Oyebola Coxon, nota anche con i nomi Enrica Kupe e Bibi (@ostetricasenzafiltri), è accusata dell’omicidio colposo di un neonato e di non aver gestito in modo corretto le complicanze del parto durante l’assistenza domiciliare alla madre. La notizia è circolata dopo la segnalazione di Francesca Bubba, attivista contro la violenza ostetrica e autrice di Preparati a spingere, un libro sulle difficoltà delle neomadri, che già aveva contestato i contenuti sui social di Coxon – e i corsi che vende online – perché contenevano informazioni su gravidanza e parto contrarie alle più comuni e diffuse raccomandazioni mediche.
Fino agli anni Cinquanta i parti in casa erano la norma, in Italia così come in altri paesi del mondo. Da allora il ricorso all’assistenza ospedaliera ha molto contribuito a ridurre le morti di neonati e donne partorienti e puerpere. Tuttavia non tutti i travagli comportano rischi per la salute di bambini e madri, e in molti casi la sola assistenza ostetrica è sufficiente per un parto sicuro. In alcuni paesi europei il parto in casa è ancora abbastanza comune, sebbene in diminuzione: quello in cui è praticato di più sono i Paesi Bassi, dove nel 2021 il 14 per cento dei parti è avvenuto in casa.
Alcune donne ritengono la casa un ambiente più accogliente e consono ad affrontare l’impegno fisico ed emotivo del travaglio e del parto. «La ragione principale di questa scelta è la ricerca di un’intimità della nascita, in un luogo in cui ci si sente a proprio agio», spiega Silvia Mori, ostetrica dell’associazione “Nascere a Modena” che segue parti in casa come libera professionista. «L’ospedale può essere visto come luogo di cure e di patologie, dato che lo è, e visto che la gravidanza non è una patologia c’è chi preferisce vivere il parto in un altro contesto».
In Italia qualunque donna può scegliere di partorire in casa se lo desidera, e qualunque ostetrica può fornire assistenza a domicilio anche per il parto. La deontologia della professione e le conoscenze scientifiche più condivise però suggeriscono di farlo solo nei casi di gravidanza cosiddetta fisiologica, come descritta dalle linee guida dell’Istituto superiore di sanità, e valutata a basso rischio.
Significa per esempio di escludere le donne con patologie da tenere sotto controllo, o quelle il cui travaglio inizia prima del compimento di 37 settimane di gravidanza, cioè prematuramente. Anche per i parti di gemelli, di feti che potrebbero aver bisogno di immediata assistenza medica dopo la nascita, o in posizione podalica, cioè con i piedi rivolti verso il collo dell’utero, è raccomandato il parto in ospedale.
In condizioni di gravidanza fisiologica e a basso rischio, Silvia Mori e le altre ostetriche che come lei fanno parte della “Associazione nazionale ostetriche parto a domicilio e casa maternità” possono prendere in carico una gravidanza in vista dell’assistenza al parto a domicilio. L’assistenza deve iniziare almeno dalla 32esima settimana di gravidanza, cioè all’ottavo mese, in modo che le ostetriche (che sono sempre almeno due al momento del parto) possano conoscere la donna, l’eventuale partner e la loro casa, sia per quanto riguarda le condizioni di salute che dal punto di vista umano.
«Il partner deve essere tranquillo», specifica Mori. «Se non è sereno rispetto al progetto di parto in casa, non si partorisce a casa». Questo processo di conoscenza serve anche alla donna e al partner per capire bene come avviene un parto in casa e prepararsi ad affrontarlo.
Il servizio di assistenza prevede che le due ostetriche siano sempre reperibili per l’inizio del travaglio, 24 ore al giorno, fin da quando la gravidanza raggiunge la 37esima settimana. Comprende inoltre una serie di visite domiciliari anche dopo il parto, per esempio per sostenere la famiglia nell’allattamento.
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Le statistiche più recenti del ministero della Salute, basate sui certificati di assistenza al parto (CeDAP) compilati da ospedali e ostetriche, dicono che nel 2023 solo in otto regioni sono nati bambini in casa o in case di maternità. Questo dato però deve essere preso con cautela perché nelle regioni in cui non ci sono leggi specifiche sui parti in casa o nelle casa di maternità – undici in totale – anche la raccolta dei CeDAP da parte di ostetriche libere professioniste non è regolamentata e quindi, probabilmente, incompleta.
Tra le regioni che una legge ce l’hanno, solo l’Emilia-Romagna, le Marche, il Piemonte e il Lazio, oltre alle province autonome di Trento e Bolzano, prevedono rimborsi per le spese sostenute dalle donne che si fanno assistere nel parto fuori dagli ospedali. In Emilia-Romagn è previsto un rimborso parziale, che copre la spesa prevista dal servizio sanitario pubblico per i parti vaginali senza complicanze. Attualmente arriva a un massimo di 1.540 euro: le spese per l’assistenza ostetrica domiciliare variano a seconda delle libere professioniste a cui ci si rivolge, ma indicativamente nella stessa regione possono variare tra i 2mila e i 3mila euro.
Anche in una stessa regione comunque le condizioni del parto a domicilio possono essere diverse da città a città. Nella maggior parte dei capoluoghi emiliani e romagnoli l’assistenza al parto in casa è offerta solo da ostetriche libere professioniste, mentre a Bologna c’è anche una casa di maternità privata, e a Reggio Emilia le ostetriche dell’azienda sanitaria locale fanno assistenza alla nascita a domicilio in regime di servizio pubblico. In Piemonte offre un servizio simile a quello di Reggio Emilia solo l’ospedale Sant’Anna della Città della Salute di Torino.
I rimborsi in ogni caso vengono fatti solo per i parti che avvengono seguendo la legge regionale dedicata. In Emilia-Romagna devono essere rispettate le linee di indirizzo sui parti extraospedalieri, periodicamente riviste alla luce dei più aggiornati studi scientifici: per esempio la donna che partorisce deve essere in condizioni di gravidanza fisiologica e il parto deve avvenire a una distanza inferiore ai 30 minuti dall’ospedale di riferimento. Questa peraltro è una delle ragioni per cui alcune donne si rivolgono alla casa di maternità di Bologna: per chi vive in luoghi isolati, come i paesi degli Appennini, il parto a domicilio sarebbe escluso dai rimborsi.
Al di là dell’aspetto economico comunque le linee di indirizzo prevedono alcune regole per i casi di emergenza.
Una spesso fraintesa riguarda le ambulanze. Spiega Mori: «Quando il travaglio è iniziato e arriviamo a casa della donna, preallertiamo il servizio di emergenza, il 112, e la sala parto dell’ospedale più vicino. Ma non significa, come molti pensano, che da quel momento alla fine del parto c’è un’ambulanza parcheggiata sotto la casa della donna». Le ostetriche semplicemente avvisano che c’è un travaglio in corso a un certo indirizzo, e lasciano al servizio di emergenza altri dati utili per un eventuale contatto successivo. In questo modo, in caso di complicanze e necessità di portare la donna o il neonato in ospedale, si può fare più in fretta.
Questo coordinamento in Emilia-Romagna è piuttosto rodato perché le ostetriche che offrono assistenza al parto domiciliare in libera professione collaborano da vicino con il servizio sanitario regionale, che si confronta con loro sulla gestione dei parti e per discutere dei casi difficili. Giulia Bagnacani, ostetrica dell’azienda sanitaria di Reggio Emilia e referente per il parto in ambiente extraospedaliero in Emilia-Romagna, dice: «Sul parto a domicilio c’è ancora ignoranza e questa rete serve per favorire la conoscenza reciproca, in modo che il personale sanitario degli ospedali abbia fiducia nel lavoro delle ostetriche che offrono questa assistenza e, viceversa, le ostetriche nel personale ospedaliero».
Le linee di indirizzo dell’Emilia-Romagna prevedono anche la realizzazione di un rapporto annuale che raccoglie i dati sui parti in casa e analizza la qualità del servizio. Il più recente dice che, delle 157 donne che nel 2023 hanno fatto richiesta di assistenza al parto extraospedaliera nella regione, il 92 per cento ha la cittadinanza italiana e il 70 per cento è laureata. Il 79 per cento durante la gravidanza si è sottoposta a esami di diagnosi prenatale non invasiva, come il test che valuta il rischio che il feto abbia anomalie cromosomiche (trisomie).
Per quanto riguarda le emergenze, nel 2023 le donne trasferite in ospedale prima del parto sono state il 10 per cento (un dato in linea con quelli del 2022 e del 2021); nella maggior parte dei casi ci sono andate con un mezzo proprio e non in ambulanza. Il rapporto dice anche che nella stragrande maggioranza dei casi i bambini nati in casa sono stati visitati da un pediatra entro le 24 ore dalla nascita, come previsto dalle raccomandazioni.
«Tutte le donne in gravidanza avrebbero il diritto a ricevere un’informazione completa sulle forme di assistenza disponibili, comprese quelle che riguardano il luogo del parto», dice ancora Bagnacani, «non solo nei consultori ma anche da tutti i ginecologi che seguono le gravidanze». Per ogni azienda sanitaria dell’Emilia-Romagna c’è un’ostetrica di riferimento che può dare ulteriori informazioni sul parto a domicilio. Nelle regioni dove questa pratica è meno considerata e regolamentata non è detto che sia così facile ricevere informazioni complete e affidabili.