Anche in una Milano deserta impressiona vedere ancora una fila davanti al negozio Pop Mart in corso Buenos Aires 3 che vende i celebri pupazzetti Labubu.
La pazienza di chi è in coda è infinita. Anche nelle giornate calde e assolate. Non sono tutti giovanissimi. Alcuni hanno una veneranda età. E l’osservatore distratto non può che avere un moto di solidarietà nei loro confronti.
Lo staranno facendo – è il pensiero comune dei passanti – per un figlio o un nipote. In realtà, l’ormai sterminata letteratura sul fenomeno Labubu – creato su Tik Tok, diventato una moda irresistibile anche grazie a celebri adozioni, da Rihanna a Dua Lipa – ci rivela che sono molti gli appassionati maturi e persino con i capelli grigi.
Sul Financial Times sono stati pubblicati i dati più aggiornati sulla consistenza economica della passione planetaria per i Labubu. Nei primi sei mesi dell’anno, le vendite sono semplicemente triplicate. I profitti del gruppo cinese che li produce sono aumentati del 400 per cento. In poco tempo Pop Mart, il cui titolo è quotato alla Borsa di Hong Kong, ha raggiunto una capitalizzazione – come segnala nella sua quotidiana newsletter Franco Quillico – che è pari a più del doppio di giganti come Hasbro e Mattel. Il fondatore e chief executive officer, Wang Ning, è diventato, secondo Forbes, il decimo uomo più ricco della Cina.
Non si tratta solo di un fenomeno di adolescenti esaltato dai social network, ma anche nella dimostrazione che sul versante del marketing, e soprattutto dell’esercizio di una sorta di soft power nei consumi e nelle scelte globali, la Cina ha acquisito un vantaggio apparentemente incolmabile.
Si misura di più nel mercato di un pupazzetto bruttino, ma per nulla tecnologico, che in quello delle auto elettriche. Conta la creatività e la capacità di imporre delle mode. Una volta prerogativa solo occidentale. E qui non c’è dazio che tenga.
20 agosto 2025
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