Il filone death metal che predilige dischi da due, tre, massimo quattro canzoni lunghe è oggi molto frequentato. Che parte della colpa, o del merito, sia dei Blood Incantation è fuori dubbio, ed è impossibile non pensare a loro quando si vede il nuovo disco di una giovane band semisconosciuta che registra quattro canzoni la più breve delle quali dura 9 minuti e mezzo. In questo caso, la band semisconosciuta sono gli Haxprocess.

Gli Haxprocess nascono negli Stati Uniti, in Florida, nel 2020. Su Metal Archives leggo che la band è composta da quattro ragazzi la cui età va dai 21 ai 36 anni. Fino a oggi hanno pubblicato un EP, un paio di demo e due full. Il primo, del 2023, si intitola The Cavern of Duat ed è un disco molto bello, melodico, dinamico e potente. Quello di cui vi parlo ora è invece il secondo, Beyond What Eyes Can See, uscito a luglio di quest’anno. Le influenze della band sono chiare: ascoltando il primo disco si sentono Morbid Angel su tutti, ma anche Atheist e i primi Opeth; se ascoltiamo il secondo, invece, i Blood Incantation prendono il sopravvento. Apriti cielo.

A questo punto, vista la piega che ha preso il discorso ogni volta che si parla di questi ultimi, immagino ci sia chi ha già smesso di leggere. Se invece siete rimasti, buon per voi. Beyond What Eyes Can See è un buon disco e vale la pena ascoltarlo. Personalmente però ho una paio di riserve.

Innanzitutto, affidarsi in studio di registrazione ancora alla stessa persona che ha lavorato a Starspawn,Hidden History of the Human Race e Timewave Zero non credo sia una buona idea, soprattutto quando suoni lo stesso identico genere e VUOI suonare come i Blood Incantation. Ho detto “ancora” perché pure The Cavern of Duat è stato affidato a quella persona, ma lì gli Haxprocess spaziavano tra diverse influenze e quindi la sensazione di ascoltare un clone della band del Colorado era meno marcata. Questa è la pecca principale di questo disco: hai canzoni strutturate come i Blood Incantation, hai il suono dei Blood Incantation e praticamente tutto sa di Blood Incantation. The Cavern of Duat, pur avendo lo stesso suono di un disco dei Blood Incantation, si distingueva però nello stile. Magari al prossimo giro sarebbe il caso di cercare qualcun altro, per non finire nel marasma dei cloni di una band tutora in attività e sulla cresta dell’onda.

Il fatto poi di volersi misurare con canzoni lunghe è lodevole, e personalmente mi entusiasma vedere certi minutaggi. Però bisogna avere idee e amalgamarle bene. Mantenere alta l’attenzione con canzoni che durano rispettivamente 9, 11, 10 e 13 minuti è un lavoraccio. Gli Haxprocess ci riescono a volte sì e a volte no. Sanno bene come dare dinamismo a un brano, e questo gli va riconosciuto, ma alcune parti sembrano messe lì solo per allungare il brodo, non hanno mordente, e alla decima volta che riascolti il disco finisci per saltarle. È il caso in particolare della seconda traccia, The Confines of the Flesh, che, tra tutte, mi dà la sensazione che si sarebbe potuta chiudere molto prima.

Il disco, come dicevo, a parte questo paio di critiche è comunque da ascoltare e il giudizio complessivo è buono. I pezzi, tutto sommato, ci sono. Tuttavia gli Haxprocess hanno fatto un passo indietro, perché con Beyond What Eyes Can See si ha proprio la sensazione di ascoltare uno spudorato clone dei Blood Incantation e non più la giovane e rampante band death metal di The Cavern of Duat.

Oh, la copertina è veramente fica però. (Luca Venturini)