Nel 1984, in seguito all’arrivo di un nuovo gruppo di dirigenti in The Walt Disney Company, fu organizzata una proiezione del lungometraggio animato che sarebbe dovuto uscire l’anno successivo, Taron e la pentola magica, per saggiare la situazione. Il film era in lavorazione da anni ed era diventato un progetto mitologico tra i corridoi dello studio. Terminata la proiezione, il primo commento fu: «Qui abbiamo un bel problema».
Nella Storia dello studio d’animazione Disney, Taron e la pentola magica rappresenta uno dei momenti più bui, se non il più tragico in assoluto. Non per il film, che comunque all’epoca era uno dei più violenti e orrorifici di tutto il catalogo dello studio d’animazione, quanto per la turbolenta lavorazione, protratta per più di un decennio e arrivata in un momento di grande crisi, insuccessi e scarsi entusiasmi da parte della nuova dirigenza. Sembrava che Taron sarebbe diventato l’ultimo film animato della Disney, quello che l’avrebbe distrutta definitivamente.
Don Bluth
Taron e la pentola magica fu il frutto della tempesta perfetta. Negli anni Settanta, con Walt Disney morto da tempo, a gestire lo studio d’animazione erano i suoi vecchi collaboratori, i Nine Old Men, ma anche loro, tra pensioni, dipartite e un certo irrigidimento nelle scelte creative, stavano mostrando segni di cedimento. D’altra parte, le nuove leve erano inesperte, prive di una guida o, se capaci, osteggiate dalla dirigenza. Lo studio stava diventando un posto dove i mediocri avevano fatto leva sul principio di anzianità per scalare i ranghi.
Come ricorda Brad Bird, «invece di rimpiazzare i grandi vecchi con i giovani talenti dello studio promuovevano quelli che erano lì da vent’anni ma non erano riusciti a svettare perché erano mediocri, e la prima cosa che fecero questi mediocri fu mettere a tacere quelli troppo ambiziosi». Tra gli ambiziosi c’era sicuramente Don Bluth, un animatore talentuoso attorno a cui si stavano polarizzando gli animi, tra chi, sia colleghi che supervisori, lo ritenevano un egocentrico mitomane e chi invece ne subiva il fascino carismatico. A differenza dell’amministratore delegato di Disney Ron Miller, genero di Walt Disney, che non riteneva i giovani animatori pronti per gestire un lungometraggio da soli, Bluth credeva che lui e i suoi colleghi fossero pronti per la sfida.
Come racconta Bluth nell’autobiografia Somewhere Out There, «quando, ancora ragazzo, avevo iniziato a lavorare alla Disney, le persone attorno a me spesso si chiedevano: “Che cosa farebbe Walt?”. Ora non più. I dirigenti e gli azionisti stavano prevalendo sugli autori».
Inoltre, tra la vecchia guardia e le nuove generazioni di animatori non correva buon sangue: i primi vedevano i secondi come debosciati senza talento che passavano il tempo a drogarsi, mentre questi ritenevano, non del tutto erroneamente, che i giorni migliori degli altri fossero ormai alle spalle.
L’idea per Taron e la pentola magica nacque nel 1971, quando lo studio si assicurò i diritti di trasposizione per la serie di libri fantasy Le cronache di Prydain di Lloyd Alexander. A caldeggiare il progetto c’erano proprio alcuni dei Nine Old Men, che pensarono di attirare il pubblico adolescente con un film più adulto e che, se fatto bene, sarebbe stato «bello quanto Biancaneve».
Ma lo sviluppo del progetto stava procedendo a rilento e fu data priorità ad altri film, come Le avventure di Bianca e Bernie e Red e Toby nemiciamici. Un articolo del New York Times del 1978 affermò che Taron, costato fino a quel punto 15 milioni di dollari, sarebbe dovuto uscire nel 1980, ma era «indietro di quattro anni sulla tabella di marcia» e che quindi non sarebbe uscito prima del Natale 1984, perché «i nuovi animatori che Disney ha assunto negli ultimi sei anni non sono abbastanza scafati per gestire le complessità del film».
E poi arrivò quello che sembrò il colpo fatale per lo studio. Il 3 settembre 1979, Don Bluth lasciò la Disney portandosi dietro una quindicina di animatori e altro personale per fondare il suo studio. Si trattava di quasi metà della già anemica forza lavoro, sfoltita da pensionamenti e mancati ricambi.
Con Bluth e i suoi fuori da giochi, Red e Toby e gli altri progetti in lavorazione furono posticipati, mentre Taron e la pentola magica ripartì da zero. Nel 1980, John Musker (futuro co-regista de La sirenetta e Aladdin) si vide inizialmente affidata la produzione, a cui si aggiunsero i tre registi Ted Berman, Richard Rich e Art Stevens, reduci da Red e Toby. «C’erano tre registi che non si parlavano» ricordò Don Hahn, produttore de Il re leone che all’epoca lavorava come direttore di produzione. «E così ogni pezzo di film aveva un’atmosfera e un ritmo diversi.»
Ma per la dirigenza quel gruppo era troppo affolato e, dopo l’abbandono di Musker (a detta sua «nessuno della vecchia guardia con cui lavoravo apprezzava le mie idee»), anche Art Stevens fu fatto fuori. Fu rimpiazzato, nel ruolo di produttore, da Joe Hale, decano dello studio che stava lavorando su Taron come storyboardista e aveva molta esperienza nella fase dei layout, quando cioè bisogna stabilire le inquadrature di ogni scena.
«Ero molto attento a quell’aspetto» disse Hale. «Taron e la pentola magica è soprattutto un film di layout. Volevo mostrare al pubblico il mondo in cui vivono i personaggi, quindi privilegiammo le inquadrature totali. Ogni scena doveva essere esteticamente piacevole, come un quadro da appendere al muro».
Hale si fece carico del film insieme a Berman e Rich, ma ogni scelta creativa che veniva fatta plasmava il progetto con una forma sempre più conservatrice. E così il giovane Tim Burton, da poco arrivato allo studio grazie a un apprendistato da animatore, vide tutte le sue idee di design per i personaggi rifiutate perché troppo strane e bizzarre e impossibili da «disneyficare» senza che perdessero il loro fascino.
«Avevano questa volontà di muoversi in avanti, verso il futuro e la contemporaneità, ma non sapevano come farlo» disse Burton nel libro Disney’s Art of Animation. «Tenevano un piede nel passato e un piede nel futuro, ma nessuno dei due era saldo. Taron fu uno di quei progetti che mi allontanò dall’animazione.»
Lo studio allora richiamò dal pensionamento uno dei Nine Old Men, Milt Kahl, per fargli disegnare i personaggi principali. Kahl era un grande animatore poco abituato a immaginare personaggi dal nulla, e le sue idee finirono per assomigliare a caratteri già visti: Taron assomigliava a Peter Pan e Re Cornelius a una versione maschile di Malefica. Per paura di osare, il gruppo di lavoro ripiegò sulle proposte di Kahl, mischiate con lo stile dei fantasy che andavano di moda negli anni Ottanta.
Dopo numerose riscritture, la trama del film, che adatta i primi due libri della saga letteraria, si discostò molto dai romanzi, con personaggi minori fatti diventare principali, come nel caso dell’antagonista. Nella pellicola, il giovane Taron vive con il vecchio Dallben e passa le giornate fantasticando su battaglie e gloria, ma il suo compito quotidiano è ben più umile: badare alla maialina Ewy, dotata del dono della visione, capace di rivelare immagini profetiche attraverso le acque.
Quando Dallben scopre che il perfido Re Cornelius, uno stregone scheletrico dai poteri necromantici, è alla ricerca della Pentola Magica, un potente artefatto in grado di evocare un esercito di non-morti e piegare il mondo al proprio volere, capisce che Ewy è in pericolo. Affida allora a Taron il compito di portarla in un luogo sicuro, lontano dagli occhi del nemico. Nel suo cammino, Taron incontrerà Gurghi, una bizzarra creatura pelosa, il cantastorie Sospirello e la principessa Alin, con i quali si alleerà per sgominare Cornelius.
Nel frattempo, nel 1984 un cambio ai vertici sconvolse lo studio: l’imprenditore Saul Steinberg, che già aveva tentato la scalata della Chemical Bank, iniziò a comprare quote su quote dell’azienda, con l’idea di smembrarla e venderne a peso d’oro i vari cespiti. La dirigenza dovette ricorrere alla greenmail, strategia finanziaria in cui una compagnia minacciata da una scalata esterna ricompra a valore maggiorato il pacchetto azionario degli acquirenti. La vicenda creò una spaccatura all’interno del consiglio d’amministrazione: Roy E. Disney, nipote di Walt e membro del consiglio, osteggiò l’amministratore delegato Ron Miller per le decisioni prese, e quest’ultimo fu costretto alle dimissioni.
Il consiglio di amministrazione assegnò il posto di Miller a Michael Eisner, che aveva mietuto successi alla Paramount con film come I predatori dell’arca perduta. A gestire il reparto cinematografico (film e animazione), Eisner mise Jeffrey Katzenberg, che si era fatto notare proprio alla Paramount per il suo fiuto e le sue capacità da PR navigato.
Ambizioso, testardo, egocentrico, Katzenberg si impose sullo studio d’animazione con uno stile d’assalto e un micromanagement sconsiderato – questo perché interveniva su una modalità di produzione, quella animata, che non conosceva. Durante la prima settimana in Disney, Katzenberg fece proiettare il film per vedere a che punto erano i lavori. Secondo l’opinione di tutta la dirigenza, Taron era troppo violento e cupo, ma non era un aspetto che si sarebbe risolto togliendo qualche scena, era un tratto genetico del film. Non si poté fare altro che togliere qualche inquadratura di troppo e spostare la data di uscita di altri sei mesi per addolcire le parti più crude.
Nonostante l’ulteriore rinvio, gli animatori dovettero lavorare sette giorni su sette per consegnare il film in tempo per la data di uscita, il 24 luglio 1985, ricorrendo perfino a uno studio esterno in Corea, che invece di velocizzare la produzione la rallentò («quando devi spedire una cassa di disegni dall’altra parte del mondo, invece di risparmiare tempo ne stai perdendo in più» commentò Don Hahn).
In più, Katzenberg programmò un trasferimento degli animatori dalla storica sede in cui lavoravano, la stessa in cui Walt Disney aveva realizzato tutti i suoi classici, per fare spazio agli uffici dedicati alle produzioni dal vivo. «Il trasferimento avvenne dopo la fine dei lavori su Taron», disse Hahn, «ma sapevamo che sarebbe successo e c’era questa sensazione che, una volta finito il film, ce ne saremmo andati. E questo di certo non aiutò il morale».
Tutto aveva un sapore crepuscolare, e lo stesso Taron, forse in maniera subliminare, acquisì quel gusto. Intervistato dal Chicago Tribune per un articolo sul film, Joe Hale romanzò una lavorazione idilliaca e ricca di creatività: «La dirigenza ci ha lasciati soli durante la produzione e ora supporta il film con una promozione importante. Siamo voluti tornare all’essenza della grande animazione del passato. […] Re Cornelius sarà un cattivo memorabile tanto quanto la regina di Biancaneve». Era l’ultimo, disperato tentativo di vendere al pubblico un film attorno a cui c’era scarso interesse. Il profilo uscì il 3 agosto, quando ormai il destino di Taron e la pentola magica era segnato.
Con un budget lievitato a 44 milioni di dollari (il più alto per un film d’animazione, anche per colpa della decisione di produrlo nel formato più largo Super 70 Technirama, lo stesso con cui era stato realizzato La bella addormentata nel bosco), Taron ne portò a casa appena 21, venendo superato al botteghino dal film de Gli orsetti del cuore, prodotto con appena 2 milioni. Uno dei pochi Paesi in cui andò bene fu la Francia, dove Taron raccolse il quinto maggior incasso della stagione.
Ciononostante, la critica non demolì il film, con giudizi che passavano dal tiepido all’entusiasta. Roger Ebert lo recensì molto bene, per esempio, ma forse il sentimento generale è riassunto dalla recensione di Maurizio Porro che sul Corriere della Sera scrisse: «L’originalità è un po’ sbiadita, i personaggi sono simpatici ma convenzionali e l’atmosfera generale è un po’ troppo horror».
Disney fece di tutto per cancellare Taron dalla memoria collettiva. Aspettò oltre dieci anni prima di distribuirlo in home video, e quando uscì la prima videocassetta, nel 1998, fu solo merito delle migliaia di lettere che chiedevano di poterlo vedere. Taron si costruì una reputazione prima da film che «la Disney non vuole che vediate» e poi da cartone che «quasi uccise la Disney», come titolarono due articoli su Slate e Collider.
Subito dopo l’uscita del film, Eisner e Katzenberg presero parte a una riunione sullo stato dei lavori del successivo lungometraggio, Basil l’investigatopo. Fu presentata loro tutta la storia in forma di storyboard e quando si concluse la riunione, dopo tre ore, i due si guardarono frastornati, abituati com’erano a leggere sceneggiature complete. «Tu ci hai capito qualcosa?» chiese Eisner, ottenendo uno scoraggiato «no» da Katzenberg, che poi aggiunse: «Ma questa gente sta venendo pagata comunque, quindi tanto vale fargli fare il film». Tale era il grado di fiducia che era arrivata ad avere la stessa Disney nei confronti del mezzo che l’aveva resa grande. A poco a poco, lo studio si sarebbe risollevato grazie a timidi successi come Basil e Oliver & Company, a cui si sarebbe aggiunto poi La sirenetta, che avrebbe dato il via al Rinascimento Disney.
Ora di Taron e la pentola magica restano le tribolazioni dietro le quinte, la nomea e il film stesso, un prodotto imperfetto, privo di una visione, a tratti incerto e visivamente altalenante. Il suo interesse sta più in quello che racconta, senza volerlo, sul punto più basso di uno studio che è stato anche quello da cui però è cominciata una nuova era.
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