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Goffredo Fofi e quell'inchiesta sulla Torino che si colorava di Sud. Una pietra miliare nata dal «no» della Einaudi
LLibri

Goffredo Fofi e quell’inchiesta sulla Torino che si colorava di Sud. Una pietra miliare nata dal «no» della Einaudi

  • 21 Agosto 2025

di
Alessandro Chetta

Il grande intellettuale scomparso a luglio pubblicò «L’immigrazione meridionale a Torino», quadro esatto e senza sconti degli anni del boom. Genesi e polemiche di un volume divenuto punto di riferimento per gli storici

L’immigrazione meridionale a Torino è un classico del genere ma non si trova facilmente, non va in ristampa, e nelle biblioteche cittadine è sempre in prestito. Su eBay la prima edizione va a 50 euro; ci sarebbe Amazon ma si perde il gusto della caccia grossa. L’autore, Goffredo Fofi, scomparso a luglio, operatore culturale quant’altri mai, al principio degli anni 60 volle seguire al Nord tutto quel Sud di cui s’era imbevuto, lui umbro, affiancando Danilo Dolci in Sicilia.
Così realizzò da non-sociologo un’inchiesta sociologica accuratissima, che non era venuta in mente agli addetti ai lavori nonostante ce l’avessero sotto il naso; «era centrale ma non se occuparono che rarissimi giornalisti». 

Di un classico è inutile ripassare pedissequamente i contenuti, meglio cerchiare alcuni capisaldi, qualche cifra e soffermarsi sulla genesi, magari non nota a tutti, riassunta nella scoppiettante prefazione alla terza edizione edita da Aragno in cui lo stesso Fofi indugia sulle traversie per la pubblicazione.
In breve, gli dei einaudiani dapprima entusiasti si irrigidirono di fronte ai passaggi molto critici sulla Fiat (del resto, nelle opere di Fofi tutto è politica, anche le recensioni ai film di Totò o sulle canzoni di Nino D’Angelo). 

La spaccatura in via Biancamano

Luca Baranelli, redattore in via Biancamano, gli fece sapere che chi aveva letto l’inchiesta chiedeva dei tagli. «Ma fu Massimo Mila a dire ciò che tutti pensavano, che l’ostilità al mio lavoro veniva dalla denuncia alla fabbrica». Ne seguì una pesante spaccatura in Einaudi. «Mi dispiacque molto che persone per le quali avevo grande ammirazione come Bobbio, Venturi, Calvino, Bollati votassero contro la pubblicazione. A favore solo Cases, Fortini e Mila». Ma Fofi non risparmiava neanche il Pci «che niente faceva per gli immigrati anche perché grande nemico dell’emigrazione dal Sud» e questo gli chiuse anche le porte di Laterza.

Quando grazie alla mediazione di Danilo Montaldi il libro uscì nel ’64 con un altro editore, Feltrinelli, Carlo Casalegno de La Stampa gli dedicò un lungo articolo «che in sostanza diceva “parla male di noi” (intendendo la Fiat e il suo giornale) “ma è un libro importante”».

Il treno del sole e le soffitte spoglie

L’indagine è un’impressionante fotografia di quel clima epocale, tramandabile solo da chi ha saputo incrociare le statistiche ai volti spaesati di Porta Nuova: «Nel chiasso e nella confusione dell’arrivo del treno del sole che arriva alle 9:50 di ogni giorno quel che colpisce di più è il silenzio dei bambini, l’intontimento». Quei bimbi insieme ai genitori si distribuiranno tra capoluogo e provincia, territorio che raccoglieva metà degli abitanti del Piemonte. «Il fuggitivo arriva in stazione e si sente senza passato né presente, momento terribile» e nei primi giorni se non trova un tetto dorme nei vagoni dove per non farsi cacciare compra il biglietto meno caro, per Moncalieri, e lo mostra al capotreno. Altre volte è un parente ad ospitare un’intera famiglia e questo «manda in bestia il padrone di casa e innervosisce i vicini piemontesi». Step successivo sono le soffitte a Porta Palazzo attrezzate solo «con materassi vecchi e fornelletti del gas presi al Balûn».

Diversi aspetti descritti nel libro si ricollegano alla contemporaneità e tra questi il fatto che «l’emigrazione perviene a rallentare l’invecchiamento della popolazione» le cui conseguenze al tempo «preoccupavano i sociologi» mentre oggi preoccupano tutti. Il confronto con l’attualità diverge nel dato sulla tolleranza o meno dei nuovi arrivati: si legge che dopo le dichiarate ostilità del decennio precedente, le difficoltà dei meridionali con i torinesi «vanno diminuendo d’intensità»; oggi invece problemi e conflittualità con i migranti africani degli anni 2000 ancora non sfiamma, salvo eccezioni.

Nel lustro ’55-’60 approdano in città 35mila pugliesi, 17mila siciliani, 11mila calabresi, 7000 campani. «Queste persone devono adattarsi, imparare ad essere come noi», dichiara a Fofi un torinese intervistato al quale fa da controcanto un muratore foggiano: «Credevo che loro fossero così poco d’amicizia solo con noialtri, invece è proprio la loro maniera di vivere, sono fatti così, e fanno così anche con i loro amici». 

All’arrivo quel che meraviglia i meridionali sono «i viali, il traffico, l’ordine» e più di ogni cosa la nebbia «vero simbolo dell’estraneità». La maggior parte sogna il Lingotto: nel ‘62 il marchio Fiat, «quattro lettere che si ripetono con un’insistenza che per un nuovo arrivato sa di magia», compare ovunque come un mantra capitalista, a partire dalle affiches in strada, come nello stesso periodo e in senso politicamente opposto i cartelloni «tendremos al socialismo» riempiono la nuova Havana di Fidel.

La fabbrica

S’è detto delle critiche di Fofi all’azienda di Agnelli che indispettirono gli einaudiani, in effetti parecchio circostanziate. «Un monopolio che riesce a percepire interessi persino sui propri debiti» annota, citando poi più volte l’Ifi istituto finanziario industriale costituto nel ‘27 per organizzare le partecipazioni del gruppo. «Il lettore non ci accuserà di divagare se qui accenniamo al potere Fiat, poiché in città nessun aspetto può essere disgiunto dalla sua presenza», anche perché ben il 59% della popolazione attiva lavorava nel settore industriale con differenze notevoli tra alti e bassi salari.
Quella costituzione in company town totale, così peculiare, innegabile fautrice di progresso come di contraddizioni, ispirò al nostro anti-sociologo una mesta profezia sulla «inquietante concentrazione» di Torino attorno alle sue catene di montaggio, soprattutto per l’indotto «che potrebbe scomparire in una ridda di fallimenti»; citofonare anni 20 del XXI secolo.


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21 agosto 2025

© RIPRODUZIONE RISERVATA

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