di
Marco Bonarrigo
Khelif si è affrettata a smentire il manager, aggiungendo che non la rappresenta più
Imane Khelif ha gettato la spugna e lasciato la boxe. Lo sostiene il manager della pugile algerina che un anno fa trionfò ai Giochi di Parigi dividendo l’opinione pubblica e le avversarie per i dubbi legati alla sua identità sessuale, unendo in una feroce discriminazione Donald Trump che la canzonò in campagna elettorale e Vladimir Putin che istigò l’ex federazione internazionale (Iba) ad emarginarla dalle gare.
«Dopo quello che è successo alle Olimpiadi, Imane non pratica più la boxe. In ogni caso, anche se volesse passare al professionismo, verrebbe sottoposta al nuovo test di genere», ha spiegato Nasser Yesfah aggiungendo che «Imane si allena in Algeria o in Qatar ma non gareggia». Khelif si è affrettata a smentire il manager, aggiungendo che non la rappresenta più. Anche sul suo seguitissimo profilo Instagram (1,8 milioni di follower), l’algerina, 27 anni, posta tutto meno che sessioni sul ring: partite di golf, sfilate, copertine (è ospite fissa su Vogue), eventi benefici. Dopo la trionfale finale con la cinese Yang Liu a cui era arrivata nel torneo parigino dopo il match-choc con la nostra Angela Carini, che abbandonò il combattimento in lacrime, Khelif non ha più incrociato i guantoni.
Nata in una famiglia poverissima di Tiaret, un villaggio dell’Atlante, a 15 anni, contro il volere di tutti, andava e tornava da casa alla palestra lontana 10 chilometri per coltivare la sua passione. Approdata giovanissima ai tornei internazionali, Imane finì quinta alle Olimpiadi di Tokyo nel 2021, fu argento al Mondiale di Istanbul l’anno dopo ma mentre stava dominando il torneo 2023 a Nuova Delhi venne spedita a casa a poche ore dalla finale «per mancato rispetto delle regole di partecipazione». La versione più attendibile è che l’Iba (guidata dal russo Kremlev e poi espulsa dal Cio per malversazioni) abbia esaminato illecitamente il suo sangue certificandone il sesso maschile. Sull’argomento si scatenarono le fake news: una risonanza magnetica che avrebbe evidenziato testicoli interni e la presenza di un «micropene», un test cromosomico che avrebbe confermato un cariotipo XY, un referto ormonale (rivelatosi contraffatto) che aveva rilevato un livello di testosterone tipico dei maschi. Il tutto rilanciato da portali web farlocchi.
A difendere Imane (oltre al popolo algerino, che l’ha eletta l’eroina nazionale), fu il Comitato Olimpico Internazionale schierato contro i test sommari di determinazione del sesso e che non aveva visto di buon occhio il modo in cui World Athletics aveva brutalmente escluso dalle piste le atlete con differenza dello sviluppo sessuale (Dsd) come la sudafricana Semenya.
Ma la scorsa primavera, pur con l’arrivo alla guida del Cio di una donna, Kirsty Coventry, l’aria è cambiata. World Boxing, la federazione che ha sostituito l’Iba, ha reso obbligatorio un test che determina la presenza del gene SRY che indica la presenza del cromosoma Y, i cui geni determinano lo sviluppo del sesso maschile (XY) rispetto a quello femminile (XX). Come nel caso dell’atletica, obbligo supportato da modesta letteratura scientifica e soprattutto senza attenzione per le situazioni più delicate come le differenze dello sviluppo sessuale o la sindrome di Morris, la femminilizzazione testicolare ipotizzata per Khelif dal genetista italiano Bruno Dallapiccola.
Ora detrattori dell’algerina sosterranno che Imane si è dileguata per sottrarsi al test genetico che ne avrebbe rivelato la reale identità e che comunque — coperta di gloria e denaro — non si sarebbe mai più sporcata i guantoni sul ring. Resta l’idea che i diktat federali — elaborati senza confronto con la comunità scientifica internazionale e senza attenzione ai tantissimi casi particolari — non possono risolvere un argomento così delicato senza creare discriminazioni, in un senso o nell’altro.
20 agosto 2025
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