L’ex presidente della Rai lascia ma «non per il tetto allo stipendio». L’addio riapre il dibattito sulle retribuzioni dei manager, dopo l’intervento della Corte costituzionale

Un altro posto che si libera in Rai. Ad andare via, anche se solo a metà – rimarrà a condurre i suoi programmi – è Monica Maggioni. L’ex presidente si è licenziata ma resterà in onda con un contratto esterno. La notizia, che anche nei corridoi praticamente deserti d’agosto ha colto più di qualcuno di sorpresa, è arrivata con poche righe sul Corriere della sera.

Una comunicazione che non è passata dalla Rai, ma è stata curata dall’ormai ex direttrice dell’offerta informativa. Spiccano le ultime righe: la decisione «non ha nulla a che fare con il tetto degli stipendi Rai visto che da qualche settimana lo stesso tetto retributivo è stato eliminato da una sentenza della Corte costituzionale che vale per tutto il settore pubblico, tv di stato compresa».

Maggioni era effettivamente inquadrata con la retribuzione massima di 240mila euro, come molti altri dirigenti. Alcuni direttori di testata, ma anche il coordinatore dei generi, Stefano Coletta e il direttore di Rai Cinema, Paolo Del Brocco. Restano al di sotto, anche se vicini, altri volti di primo piano di TeleMeloni come i direttori di genere, Paolo Corsini e Angelo Mellone o Paolo Petrecca, alla guida di Raisport. Tutto facile da ricostruire grazie alla sezione della trasparenza del sito della Rai, che però non riporta la retribuzione di Giampaolo Rossi, che da amministratore delegato di una partecipata non quotata dovrebbe pure essere soggetto al vincolo.

Certo, con il pronunciamento della Corte costituzionale tutto cambia. O potrebbe, almeno in potenza. Fin da quando è stato introdotto dal governo Renzi nel 2014 il vincolo è stato oggetto di pesanti critiche da parte di chi vedeva in esso un limite all’appetibilità di un incarico in azienda per manager che altrove avrebbero potuto ottenere un compenso maggiore.

Non sono mancate però soluzioni creative per aggirare il problema, come i contratti da artista che permettono, anche ai giornalisti come Bruno Vespa, di guadagnare cifre ben oltre il tetto, per non parlare dei talent, che ovviamente sono soggetti a trattative private di tutt’altro livello. Ma a questo punto anche la zavorra del limite agli stipendi dei manager potrebbe venire a cadere, se i dirigenti decidessero di ritoccarsi lo stipendio. E arrivare così ad autoequipararsi, per esempio, ai colleghi di Raiway, che pure è un’azienda partecipata da Rai ma, essendo quotata, è fuori dal perimetro della legge. Certo, resta il tema delle autorizzazioni.

In azienda qualcuno scommette sul fatto che, essendo già al centro dell’attenzione per le quotidiane vicende che scuotono il servizio pubblico, la governance meloniana si asterrà – almeno per il momento – da ritocchini e adeguamenti. C’è anche un tema puramente di conti: se si dovesse discutere un aumento, sarebbe necessario il via libera del principale azionista dell’azienda, il ministero dell’Economia. E Giancarlo Giorgetti potrebbe non essere pronto ad avallare una modifica di questo tipo, visti i conti disastrati.

Nondimeno, che qualche dirigente abbia già negli occhi un intervento a rialzo sul proprio stipendio non è da escludere. E il rischio di un riverbero negativo in termini di immagine pubblica è dietro l’angolo: l’ultima legge di Bilancio ha infatti previsto per la Rai tagli per 200 milioni di euro in due anni, proprio per uscire dal profondo rosso in cui naviga. La Lega da anni ha fatto del taglio del canone il suo cavallo di battaglia. Che impressione darebbe al paese un’azienda di servizio pubblico che taglia prodotto – con annesse polemiche per esempio dal genere degli Approfondimenti – e poi spende una parte del denaro risparmiato per finanziare stipendi più alti? Per altro, con tutti i problemi in termini di share ballerino e le critiche che i detrattori muovono alla qualità dell’informazione.

Il futuro della direzione

Nei corridoi di via Asiago ci si chiede anche che fine farà la poltrona di Maggioni. Sulla carta una direzione che «svolge un ruolo di coordinamento finalizzato all’ottimizzazione dei contenuti informativi». Nella pratica gestisce anche autorizzazioni per interviste e assegnazioni: non esattamente un ruolo di scarso rilievo.

E anche se c’è la possibilità di eliminare l’incarico, per dirla con chi conosce bene la Rai, «di poltrone che scompaiono perché non c’è nessun partito che vuole occuparle non ne ho ancora viste».

È quindi già partito il totosuccessore: tra i più quotati l’attuale direttore del Centro studi, Francesco Giorgino, ancora in attesa che riparta il suo XXI secolo in seconda serata. Fresco dimissionario dalla presidenza della scuola radiotelevisiva di Perugia c’è poi Flavio Mucciante, ma senza incarico c’è anche Simona Sala, allontanata dalla direzione di Radio 2 per fare posto a Giovanni Alibrandi.

Giorgino, però, nonostante un’intervista in cui chiedeva a Giorgia Meloni se le fosse piaciuto l’ultimo Sanremo, sarebbe un altro nome che piace soprattutto dalle parti del Carroccio. Più di qualcuno è perciò pronto a scommettere che Rossi, dopo aver salutato una giornalista a lui non vicina politicamente ma di cui aveva stima, potrebbe addirittura sperare di occupare la poltrona con un dirigente di area più meloniana. Una situazione win-win.

© Riproduzione riservata