Un tank israeliano sullo sfondo spettrale degli edifici distrutti a Gaza City

Un tank israeliano sullo sfondo spettrale degli edifici distrutti a Gaza City – Reuters

Fuoco dal cielo e dal mare su Gaza city. I bombardamenti israeliani hanno illuminato la notte e si sono confusi con l’alba, per continuare incessantemente durante tutta la giornata, mentre due brigate corazzate di fanteria disegnavano la tenaglia che già stringe la città occupando i quartieri di Zeitoun a sud e Jabalia a nord. Migliaia di persone hanno cominciato l’interminabile marcia verso le tendopoli ammassate nel sud della Striscia: il principio di un esodo che è parte progettuale del “Gideon’s charriot 2”, il piano di occupazione di Gaza City.

Con un messaggio nel pomeriggio il portavoce dell’Idf, Defrin, ha fatto sapere di aver già contattato le autorità sanitarie e le organizzazioni internazionali che operano nella città, preparandole «alla possibilità che l’esercito entri. È necessario organizzare il trasferimento delle strumentazioni mediche nel sud. Le infrastrutture vengono in queste ore adattate per poter ricevere i malati e i feriti». Prevede anche questo il “Gideon’s charriot 2”, il trasferimento delle almeno 800.000 persone che vivono a Gaza City. Svuotato il centro urbano, l’esercito israeliano potrà dedicarsi a scovare le rimanenti forze di Hamas. Un Vietnam di tunnel e macerie che causerebbe non poche perdite fra le truppe. Per i 60.000 riservisti israeliani che già in queste ore ricevono le lettere di richiamo e verranno impiegati a partire da settembre non sono previsti ruoli di combattimento, carico destinato ai soldati di professione, sfibrati da due anni di un conflitto su più fronti.

Un tank israeliano

Un tank israeliano – Reuters

La discesa nell’ennesimo girone infernale è tuttavia appesa al termine “possibilità”, non a caso utilizzato dal portavoce dell’Idf. È prevista per oggi la replica del governo Netanyahu alla proposta di tregua faticosamente costruita da Egitto e Qatar e accolta lunedì da Hamas. Tre insoliti giorni di silenzio sono seguiti, quasi a lasciar che le fasi preliminari dell’operazione militare si sovrapponessero alle ultime parole del primo ministro sulle condizioni inalterabili del cessate il fuoco, pronunciate sabato scorso: rilascio immediato di tutti i 50 ostaggi e completo disarmo di Hamas. La formula qatarino-egiziana, che riprende quasi per intero il piano dell’emissario americano Witkoff, in luglio accettato da Israele, prevede invece almeno due fasi nella liberazione degli ostaggi, alla quale corrisponderebbe, nei 60 giorni di tregua, il rilascio di un indeterminato numero di prigionieri politici e detenuti palestinesi. Il concreto accerchiamento della città, l’annuncio dell’imminente, forzosa evacuazione, la leva dei riservisti e il silenzio intorno alla tregua: grandiosa, sanguinosa operazione teatrale che vuole erodere ulteriormente il già flebile potere contrattuale di Hamas, o abbandono ai sogni coloniali della destra messianica dei ministri Ben Gvir e Smotrich, capaci sottraendo le loro minute squadre parlamentari di far cadere il governo.

Dopo la minacciosa e pubblicizzata visita al celebre detenuto palestinese Marwan Barghouti, leader della seconda Intifada, Ben Gvir ha deciso recentemente di appendere nei corridoi di una prigione israeliana l’immagine di Gaza distrutta, sintetica rappresentazione di passato, presente e futuro. A spingere in direzione opposta le famiglie degli ostaggi, avanguardia di almeno un quarto dell’intera nazione, che anche ieri sera hanno marciato davanti al quartier generale delle forze armate a Tel Aviv per chiedere disperatamente, rabbiosamente, che la proposta di tregua venga accolta. Per loro l’operazione cominciata ieri equivale a una condanna a morte dei propri cari.

Una bimba affacciata sulla distruzione di Gaza City

Una bimba affacciata sulla distruzione di Gaza City – Ansa

«C’è spazio per raggiungere un accordo, dipende da Netanyahu, Hamas sta mostrando una notevole flessibilità», ha riferito ieri al quotidiano Yedioth Ahronoth un alto funzionario della Difesa. La comunità internazionale, curiosamente, si è dedicata in queste ore più a condannare l’approvazione del piano “E1”, monumentale operazione ingegneristica che con 3.400 nuove abitazioni per i coloni spezzerà in due la Cisgiordania, solitamente in ombra nel discorso diplomatico, rendendo impossibile la continuità geografica di un futuro Stato palestinese. «L’Italia condanna tale decisione, che rischia di compromettere definitivamente la soluzione dei due Stati e una prospettiva politica per giungere a una pace giusta e duratura», ha dichiarato ieri la premier Meloni, unendosi al coro di altri 21 governi.

Ma la pace giusta è lontana, in Cisgiordania, come nel nord o nel sud della Striscia. Per le strade di Khan Yunis vive Adham, venticinque anni. «Mio padre e mio fratello pochi giorni fa sono stati feriti in un bombardamento. Non esistono posti sicuri, nemmeno qui a sud. Ho venduto il mio ultimo vestito buono per comprare da mangiare», racconta ad Avvenire. A venti chilometri di distanza, a Gaza City, gli fa eco Moath, giovane giornalista: «La situazione è terribile. Vorrei parlare di ciò che accade, ma i bombardamenti hanno distrutto le tende dove abitano i miei genitori. Stanno bene, ma oggi devo mettere da parte il giornalismo». E sono almeno 40 le persone uccise anche ieri, otto mentre cercavano di ricevere aiuti.