Ero appena tornato da una devastante vacanza a Palma di Maiorca, culminata nella seguente scena: il mattino del terzo giorno, una tipa con accento lombardo mi spiegava alla fermata dell’autobus che aveva appena aperto una catena chiamata H&M, e che quindi potevamo passare di lì, fare un po’ di shopping e poi andare a fare un giretto in città e mangiare del pesce in qualche trattoria. Io le dissi di sì con la testa e vomitai per terra davanti ai suoi occhi. Il tenore di quella vacanza fu grosso modo quello.

Una volta rientrato a Firenze con borse sotto agli occhi spaventose, e con la prospettiva di ricominciare a lavorare con l’ennesimo contratto a tempo, passai da Audioglobe e acchiappai tutti i promo arretrati del mese di agosto. Con grande sorpresa c’era, fra essi, l’unico che realmente aspettavo: la reunion dei Nuclear Assault. Già sapevo che mi avrebbe fatto schifo, così come mi aveva fatto pesantemente schifo Something Wicked del 1993, per intenderci quello senza Danny Lilker. Ma con i Nuclear Assault avevo una sorta di legame di sangue: le rullate lineari eppur efficaci di Glenn Evans, la voce sguaiata di John Connelly e tutto quanto il resto mi ponevano nella innaturale condizione di pensare che tutto quanto non fosse finito un minuto dopo la pubblicazione di Handle With Care.

Uno o due anni prima li avevo pure visti al No Mercy Festival a Milano, mi pare all’Alcatraz. I Death Angel li avevano senza alcuno sforzo sotterrati. John Connelly si era presentato sul palco con parecchia pancia, e l’energia scarseggiava.  Su disco poteva solamente andare peggio.

Dan Lilker si era portato appresso il chitarrista della imminente reunion dei Brutal Truth, Erik Burke, uno tutto tatuato. 

Third World Genocide era già uscito quando lo ascoltai, ed era stato stroncato da tutti. La mia speranza era che fosse un effetto copia e incolla, molto tipico di quei tempi. In sostanza accadeva che parecchi recensori si ritrovavano sulla scrivania roba che non erano in condizione di recensire: aspettavano che uscissero i pezzi degli altri e poi assemblavano un collage di cose già dette altrove. La conferma l’ebbi quando lessi quelle recensioni, che dicevano tutte la stessa cosa. Così, con un briciolo di fiducia, misi su il promo di Third World Genocide e, quando la title track scorse subdola come gli alcolici di Palma di Maiorca, pensai che in fin dei conti era soltanto una sorta di introduzione, e non doveva per forza di cose esplodere in qualcosa d’eclatante.

Price of Freedom suonava come se avessero preso un pezzo incentrato sul riffone tritaossa, tipo Critical Mass, e l’avessero spogliato di tutta la sua forza. Rimaneva soltanto il riffone alla base, e nient’altro. Poi si arrivava ai divertissement del caso, ovvero Whine and Cheese e il suo moscio punk rock. E veniva voglia di prendere quel promo e buttarlo nello stesso bidone in cui avevo buttato la VHS su cui avevo registrato Milan – Liverpool nel maggio dello stesso anno.

Ai recensori riconobbi tutta la ragione del mondo. Avevano scritto tutti le stesse cose perché quel disco era semplicemente piatto e non aveva alcun argomento da portare alla luce, nessun pezzo forte da tenere in vetrina. The Hockey Song si candidava fuori tempo massimo ad essere la nuova Hang the Pope, senza che nessuno ne sentisse il reale bisogno. Eroded Liberty una bella bordata, subito annientata dal country di Long Haired Asshole.

Oggi me lo sono pure risentito, nella speranza di notare in Third World Genocide qualcosa di meglio di quanto mi era sembrato allora. E niente, niente da fare anche stavolta. A mai più. (Marco Belardi)