di
Giuseppe Sarcina
Lavrov frena il negoziato mentre l’esercito russo intensifica gli attacchi. Tensioni tra gli alleati per i fondi
Si muovono tutti, tranne la Russia. Anzi, l’armata putiniana intensifica gli attacchi, in particolare nel nord di Donetsk e lancia un drone che atterra in un campo di mais a 40 chilometri da Varsavia. Nello stesso tempo il ministro degli Esteri, Sergei Lavrov, sembra irridere gli sforzi delle diplomazie occidentali: «Mosca non sarà d’accordo su un meccanismo di garanzia di sicurezza collettiva che non preveda la partecipazione di Russia, Cina, Stati Uniti e Francia. Un buon esempio è la formula emersa nei colloqui di Istanbul, che la Russia aveva accettato». Lavrov dimentica di aggiungere che quella trattativa fallì, tra l’altro, proprio perché i russi volevano che le misure di sicurezza scattassero solo con il consenso di tutti i garanti. Ma l’aggressore di un Paese può essere anche il suo protettore? Le parole di Lavrov hanno smorzato quella corrente di ottimismo alimentata dal vertice collettivo di lunedì 18 agosto alla Casa Bianca.
Articolo 5 o contingente
La controprova più interessante viene dalla riunione di ieri tra i Capi di Stato maggiore della Nato. Si è discusso delle tutele da garantire a Kiev, anche se il Segretario generale, Mark Rutte, ha precisato che l’Alleanza Atlantica non sarà coinvolta nell’elaborazione dei piani. Com’è noto il dibattito parte da due proposte. Quella italiana di estendere all’Ucraina un meccanismo simile a quello dell’articolo 5 della Nato: tutti corrono in soccorso di un partner aggredito. E quella franco-britannica: serve un contingente militare da schierare sul campo. Tuttavia, secondo le indiscrezioni raccolte dal Corriere, nel summit dei capi militari sono affiorate anche preoccupazioni politiche e finanziarie. La maggior parte degli alleati è convinta che Putin farà il possibile per ostacolare, se non sabotare il negoziato. La diffidenza non si annida solo nel blocco dell’Est, come dimostra la dichiarazione di un portavoce del governo tedesco, Steffen Meyer: «Il presidente degli Stati Uniti e i leader europei stanno facendo passi concreti verso la pace. L’unico finora che non si è mosso è Putin». I vertici militari hanno discusso a lungo anche delle forniture di armi all’Ucraina. Risulta che Matthew Whitaker, ambasciatore Usa presso la Nato, sia stato netto: «Gli europei devono fare la parte del leone nella divisione dei costi per la difesa ucraina». In realtà d’ora in poi gli Stati Uniti non regaleranno più niente: tutte le armi saranno vendute. E, anzi, come ha precisato ieri il Segretario al Tesoro, Scott Bessent, gli Usa potrebbero aumentare del 10% il prezzo degli ordigni e con questo extra gettito finanziare la difesa aerea promessa a Zelensky.
Ripartizione delle spese
Come al bazar, quindi, o poco ci manca. Le risorse degli alleati confluiscono in un fondo chiamato «Purl» (Prioritised Ukraine Requirement List): in sostanza la lista delle priorità per Kiev. Il meccanismo è stato concordato da Trump e da Rutte nell’incontro alla Casa Bianca del 14 luglio scorso. In sostanza è una specie di salvadanaio, ma studiato per ricevere i contributi di tutti, tranne che degli americani. Nel meeting di ieri, i rappresentanti di Germania, Svezia, Norvegia e Danimarca si sono lamentati con gli altri: noi ci stiamo mettendo soldi, voi che cosa aspettate? Olanda, Lettonia, Estonia, Belgio e Canada si sono impegnati a contribuire. Gli altri, Italia compresa, avrebbero glissato. Tutto ciò sembra dimostrare le difficoltà concrete di questa fase. Zelensky ha annunciato un piano da 90 miliardi di dollari per acquistare armi Usa, ma per molti Paesi non sarà semplice tenere il passo.
Diplomazia frenetica
In ogni caso, le diplomazie occidentali sono in frenetico movimento. Pur sotto le bombe russe, l’Ucraina, come ha detto il ministro degli Esteri, Andrii Sybiha, «è pronta e sta lavorando» per arrivare al bilaterale tra Zelensky e Putin. Il governo britannico, con la voce di Dan Jarvis, ministro della Sicurezza, pensa che «non siamo mai stati così vicini alla pace». Fioccano le candidature per ospitare il faccia a faccia e poi, eventualmente, il «trilaterale» con l’aggiunta di Trump. Si fa avanti il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, che ha proposto direttamente a Putin la città di Istanbul. Gli austriaci suggeriscono Vienna. Viktor Orbán, in una telefonata con Trump nel corso del vertice di Washington, suggerisce Budapest, anche se chiude all’ingresso dell’Ucraina nella Ue. Il premier polacco, Donald Tusk, scaramanticamente, boccia la capitale ungherese. Lì, nel 1994, fu firmato il «Memorandum» che avrebbe dovuto garantire la sicurezza dell’Ucraina.
21 agosto 2025
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