Quando uscì nel 1974, C’eravamo tanto amati fu accolto con freddezza da buona parte della critica italiana. Alcuni recensori lo accusarono di essere troppo ambizioso, altri di mescolare toni e generi in maniera confusa, altri ancora di indulgere in un’operazione nostalgica priva di vera forza narrativa. Eppure, col tempo, il film di Ettore Scola è stato rivalutato a tal punto da essere oggi considerato uno dei capisaldi del nostro cinema, nonché uno dei tentativi più riusciti di raccontare trent’anni di storia dell’Italia attraverso il filtro della commedia e del disincanto.

Scritto da Scola insieme a Age & Scarpelli, il film è una dichiarazione d’amore verso un certo cinema italiano, ma anche la sua autocritica più feroce. Con un cast indimenticabile – Vittorio Gassman, Nino Manfredi, Stefano Satta Flores e Stefania Sandrelli – la storia segue le vicende di tre amici ex-partigiani che, dopo la guerra, prendono strade diverse, ritrovandosi ciclicamente nel corso dei decenni, tra illusioni perdute, sogni infranti e passioni mai risolte.

Scola costruisce una narrazione che mescola melodramma, satira politica, realismo e meta-cinema, in un affresco straordinariamente stratificato, che cita esplicitamente Rossellini, De Sica e Fellini, senza mai perdere il proprio sguardo autoriale. L’episodio con Gianni (Gassman) sul set di Ladri di biciclette, scambiato per attore da De Sica stesso, è uno dei momenti più acuti del film: commovente e ironico, rivela tutta la distanza tra il sogno neorealista e la dura realtà di un’Italia che stava già cambiando.

Ciò che all’epoca appariva come un difetto – la sua struttura frammentata, la commistione di registri, il tono disilluso – è oggi il cuore stesso della sua modernità. C’eravamo tanto amati riesce a essere personale e collettivo, malinconico e lucido, senza mai cedere al moralismo. È un film che parla al pubblico e al cinema stesso, interrogandosi sul fallimento delle ideologie, sull’opportunismo, sull’amicizia e sull’amore, senza risposte facili né giudizi trancianti.

A distanza di cinquant’anni, C’eravamo tanto amati è diventato un cult, proiettato nei festival internazionali, studiato nelle università e amato da diverse generazioni di spettatori. Il suo titolo stesso è entrato nel linguaggio comune, evocando un’idea di rimpianto e disincanto che va oltre il contesto storico del film.

Forse il miglior complimento che si possa fare all’opera di Scola è che senza di essa, il nostro cinema non avrebbe saputo raccontarsi allo specchio con tanta lucidità. Senza di essa, probabilmente, non avremmo avuto film come La meglio gioventù, né la commedia all’italiana avrebbe conosciuto il suo ultimo, grande capolavoro.

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