Di Brianna Carafa, autrice di questo libro intitolato Il ponte nel deserto edito da Cliquot nel 2023, si trovano pochissime notizie.
Nonostante i pareri più che lusinghieri di Italo Calvino e Claudio Magris, i suoi due romanzi sono caduti a lungo nell’oblio.
La sua carriera letteraria è stata estremamente breve; Brianna, dopo avere scritto il romanzo La vita involontaria nel 1975 e poi nel 1978 Il ponte nel deserto, è prematuramente scomparsa.
Il ponte nel deserto, di Brianna Carafa
Il materiale esistente su di lei è davvero scarno e anche le foto sono rarissime. Una la ritrae con Achille Campanile, una con Moravia, e una, sicuramente la più conosciuta, la immortala seduta ad una scrivania che più che altro sembra un pianoforte.
Di lei si sa che ebbe frequentazioni intellettualmente importanti, in particolare con lo psicoanalista Mario Trevi e il fotografo Paolo di Paolo, con i quali collaborò alla nascita di una rivista dal titolo Montaggio, partorita durante una bella serata passata sulla sua terrazza a parlare di fotografia e poesia. Conobbe e frequentò anche la scrittrice Elsa Morante, l’artista Carla Accardi, e l’attrice di teatro Valeria Moriconi.
La casa editrice Cliquot la riscopre quasi per caso; si accorge che è una scrittrice di valore e coraggiosamente pubblica il suo secondo ed ultimo romanzo con una bella introduzione di Ilaria Gaspari.
Nel 1978, anno della pubblicazione del libro in questione, lo scrittore e critico letterario Ernesto Ferrero, scrisse su di lei qualcosa che è per metà una recensione e per metà un necrologio. Infatti Brianna morirà lo stesso giorno in cui il suo romanzo arriva in libreria; una sorta di eredità lasciata a sua figlia Fiammetta e riassunta in una essenziale dedica sulla prima pagina.
Nei suoi personaggi si trova traccia de “la scoperta del potere ambivalente della psicoanalisi”, e nella sua scrittura c’è un “blando corteggiamento della follia”, come dice la prefazione.
La Carafa narra con una sobrietà e una naturalezza semplice, lineare, questo bizzarro protagonista dal nome Bobi Berla, un po’ confuso, un po’ furbetto, un po’ inconsapevole. Per lui “il nesso tra cause ed effetti è insensato, invisibile, inconseguente”. Impossibile giudicarlo, impossibile non avvolgerlo da una rete di simpatia e desiderio di proteggerlo.
Non a caso il mestiere al quale Brianna approderà nella sua vita matura è la psicoanalisi; ed è con tolleranza e comprensione che ce lo presenta e ce lo continua ad offrire, anche quando si fa fatica a comprendere perché vada verso l’autodistruzione.
La vita del protagonista sembra una “vita involontaria”, già titolo del romanzo precedente, dove tutto quello che accade, compresi gli affetti, sembra casuale. Più tardi, la fuga e l’abbandono di tutte le sue certezze per inseguire uno strano, surreale progetto di costruire un ponte in una zona deserta del Messico, gli restituiranno una consapevolezza nuova.
“È vero che volevi costruire un ponte nel deserto, un ponte che va dal niente al niente?” gli chiederanno i giudici increduli al processo. Eppure quel progetto, forse proprio perché strampalato, sarà la prima cosa nella quale si riconoscerà.
Casuale è perfino la truffa nella quale si trova invischiato. Bobi si trova infatti coinvolto in una vicenda giudiziaria piuttosto grave: è accusato di spaccio, e di avere in questo modo causato la morte di un giovane. Nella sua valigia vengono trovati quattro chili di droga e un passaporto falso.
È con il suo arresto che inizia il racconto e prosegue con continui flashback che riescono a non interromperne la continuità.
Emblematiche nella vicenda, le figure dei suoi genitori che la Carafa ci mostra da raffinata psicoanalista e scrittrice; un padre sempre sfuggente, chiuso nella sua biblioteca, “scollato” dalla realtà, e la madre che tentava di sedurre il figlio con la sua malinconia ben rappresentata dalle esecuzioni al pianoforte dello studio di Chopin intitolato “Tristezza”.
Dopo la condanna, nella sua cella riuscirà finalmente a ritrovare quella agognata libertà e a distaccarsi da tutte le convenzioni e pressioni sociali e familiari.
Troverà un grande conforto nel constatare ogni giorno che nel carcere tutto è immobile, fermo, che non accade nulla, che “il tempo si raggruma in piccole e inalienabili certezze”.
La vicenda si chiude con la certezza dell’impossibilità di tracciare un confine tra la follia e la normalità, tra causa ed effetto.
Il protagonista è cosciente di avere “sprecato” la sua vita? E siamo sicuri che l’abbia davvero sprecata? O l’ha sprecata secondo una logica borghese e convenzionale che è lecito destrutturare e modificare?
Liberandosi dal concetto di successo, di prestazione, di performance, si affranca finalmente dalla vita involontaria, subita, sente il diritto di essere imperfetto e in quanto tale rivoluzionario.
Non sono una giornalista né, tanto meno, una scrittrice. Sono una fisioterapista in pensione con la grande passione della lettura che mi guida da quando ero bambina.
L’idea di questa rubrica nasce dal mio desiderio di condividere. Se un libro mi piace o mi colpisce particolarmente, cerco di raccontarlo affinché anche gli altri possano provare le mie stesse emozioni. Non amo, invece, parlare dei libri che non mi sono piaciuti. Preferisco pensare che non sono nelle mie corde, o che li ho letti nel momento sbagliato.