A breve l’inizio degli Open degli Stati Uniti, ma prima una storia da raccontare

foto Giorgio Maiozzi
Niente di losco, se non la sottile mira di immortalare il luogo del misfatto. Questa la ragion pura che un sabato ottobrino dei tardi anni settanta mi spingeva sulla soglia del West Side Tennis Club di Forest Hills, circolo prestigioso frequentato dall’ala snobbish della Grande Mela.
Facendo ingresso nel blasonato sodalizio, pensavo di aver suscitato velati sospetti visto che, di primo acchito, un pomposo receptionist abbigliato di scuro mi ammoniva dal carpire immagini dell’antica struttura. “Al diavolo”, avevo mugugnato tra me e me. “.. tutto questo viaggio per niente”. Uno straccio di replica non aveva sortito effetti migliori e a orecchie basse la mia sfavillante Nikon da finto fotografo tornava malinconica tra le fauci di una comoda tracolla.
Sede degli US OPEN per sessanta edizioni, nel ’75, l’aristocratico Club newyorkese aveva abbandonato l’impronta erbivora da vecchia Inghilterra per ripiegare, in via del tutto provvisoria, su una trilogia terraiola di intatto spessore che ingannasse i tempi di attesa utili a realizzare un impianto nuovo di zecca in zona Flushing Meadows. Un interregno che aveva riscosso il plauso di Corrado Barazzutti, da sempre a suo perfetto agio sulle superfici friabili di mezzo mondo, ivi incluse quelle verdognole d’oltre oceano.
Soldatino non avrebbe deluso le attese e camminando sulle acque, in quell’edizione del ’77 aveva iniziato col giustiziare prima Bill Scanlon e poi via via Nastase, Edmonson e Walts, fino a rifilare nei quarti, tre set a zero a un Brian Gottfried in grande spolvero.
Una volta in semifinale, la sagoma preoccupante Jimmy Connors aveva presoforma oltre la rete, guidata, anima e corpo da uno spiccato talento mancino e un’ indolespinosa quanto un cespuglio di rovi.
Passate le prime schermaglie, due entravano in lotta e pur calamitando a sé il favore della folla, l’americano dell’Illinois riportava primo e secondo per il rotto della cuffia. Nel terzo, Barazza reagiva con un gioco di sbarramento che non offriva il fianco a varchi e perfettamente in partita si issava finsul 5-3 sopra. Una fase che avrebbe potuto rimettere tutto in discussione se appena dietro l’angolo l’imprevisto non avesse chiesto il suo tributo.
Tutto avveniva al termine di uno scambio serrato che l’inesauribile Jimbo chiudeva spedendo un rovescio aggressivo fuori di un dito. Nel silenzio totale Corrado fermava il gioco e pur marcando il segno con la sua Slazenger in palissandro di colore chiaro, richiamava invano l’attenzione del giudice di linea. Un richiamo al quale anche l’arbitro di sedia avrebbe fatto orecchie da mercante traccheggiando al punto da consentire a Connors di invadere di campo avverso e cancellare da provetto guastatore ogni traccia della sacrosanta rivendicazione . “Andava squalificato”, avrebbe ripetuto più volte il nostro davisman nell’arco degli anni. Il giudice aveva pensato diversamente e in un lampo di acuto nepotismo salvava capra e cavoli con parole di circostanza: “ Signor Connors”, aveva detto ignorando i contenuti, “ lei non può fare questo”. Nulla più!Dopodiché anche la terza e decisiva frazionesarebbe finita in mani sbagliate.
Per ragioni di lavoro qualche tempo dopo volavo a New York e con l’highlight della partaccia stampato in memoria ne avevo voluto approfittare per capirne qualcosa di più. Una sorta di indagine fai da te alla disperata ricerca di un famigerato segno che aveva precluso all’italiano di giocarsela ad armi pari.
Così, se all’ingresso del club mi era statoprecluso gentilmente di acquisire immagini,con lo stesso garbo avevo ottenuto inveceampia libertà di movimento all’interno del meraviglioso Tennis Club. Consegnarispettata in modo certosino fin sull’ingresso del grande centrale, dove, d’un tratto, venivo rapito dall’irrefrenabile smania di localizzare il punto esatto in cui l’oggetto del contendere doveva aver toccato terra. Occhi fissi al corridoio avevo finito per attirarel’attenzione di un solerte manutentore. “ Hi, Sir”, esordiva il tizio in modo amichevole, “.. may I help you?”. Colto di sorpresa,sfarfugliavo la prima cosa capitata a mente: “ Oh yes…”, buttavo lì un po’ confuso, “…cercavo quel segno….”. Parole alle quali, il manutentore prendeva a scrutarmi aggrottando la fronte. “Si, insomma… “, provavo a fare chiarezza, “…la discussione tra Connors e Barazzutti di qualche mese fa”. “Cielo, Sir..” ribatteva quello un po’ accigliato, “ricordo la discussione ma non di certo il segno..”. Poi rifletteva un attimo e proseguiva:”Da allora su questo campo avrò passato il tappeto almeno cento volte!”. Dunque andavo dritto al sodo: “Senta… posso fare una foto alla riga ?”. Alla richiesta, il tipo si lasciava andare a occhiate guardinghe e quasi sussurrando elargiva un velato assenso: “ Ma faccia in fretta, la prego!”. Le foto divennero presto due, poi tre e alla fine sfioravano la decina. Ringraziavo sentitamente e lasciavo che il mio prezioso palo mi seguisse con lo sguardo fino all’entrata di una club house mozzafiato. “Le è piaciuto?” mi chiedeva il receptionist al momento dei saluti. “ Mi dispiace per le foto..” aggiungeva assai impettito “ma queste sono le disposizioni”. “ O beh…don’t warry”, replicavo un po’ sornione, “terrò tutto a mente”.
In realtà non c’era molto da memorizzare e col tempo i fatti sono divenuti storia. Con buona complicità dei giudici, l’ultimo Major giocato in quel di Forest Hills aveva perpetrato una sonora ingiustizia ai danni del nostro connazionale lasciando che Connors la facesse franca, cullato in uno sfacciato campanilismo che, al di fuori degli Usa, lasciava tutti di stucco.