di
Francesco Battistini

Gli abitanti dei kibbutz, i ragazzi al festival musicale e poi i beduini, i thailandesi, gli studenti nepalesi. Le loro famiglie in prima fila contro la guerra

«Identificazione pubblica di massa», dicono. Mettersi nei panni degli ostaggi. E dunque saltare il pasto di shabbat, perché «anche loro fanno la fame come i palestinesi». E camminare e gridare, perché loro «là sotto non possono fare né l’uno, né l’altro». Oggi si digiuna davanti alla casa di Bibi Netanyahu. E martedì si farà una grande marcia, per la liberazione degli ultimi cinquanta prigionieri rimasti nei tunnel di Gaza, i vivi e i morti: la organizzano i familiari, solito percorso da Hostage Square a Tel Aviv, e poi a Gerusalemme e ad Haifa. Nel Vietnam d’Israele, la contestazione è no stop. Sanno che sugli ostaggi non servirà a far cambiare idea: sperano serva, almeno, a cambiare un destino sempre più segnato. Perché non c’è ancora una risposta ufficiale israeliana alla proposta parziale di Hamas — il rilascio scaglionato di dieci vivi e di diciotto morti, in cambio di due mesi di tregua, poi si discute degli altri —, ma il premier Netanyahu ha già detto no e il suo ministro della Difesa, Israel Katz, minaccia di «spalancare le porte dell’inferno» se gli ostaggi non verranno liberati tutt’insieme.

Erano stati rapiti in 251: abitanti dei kibbutz attaccati da Hamas e ragazzi al festival musicale Nova, ma anche beduini dei villaggi lungo il confine, lavoratori tailandesi e persino studenti nepalesi. Ad oggi sono tornati a casa vivi in 148, nella stragrande maggioranza grazie ai negoziati, durante il cessate il fuoco del novembre 2023 e quello più recente, all’inizio di quest’anno. Molti altri sono tornati dentro le bare, sette sono stati liberati dall’esercito, per alcuni dei tailandesi ha negoziato separatamente Bangkok. Oggi, tra coloro che sono in mano ad Hamas, solo venti sarebbero vivi.



















































Bring them home: alcuni now e per altri si vedrà? È il dilemma del momento. Matan Sobol, cugino dei gemelli Gali e Zvi Berman, dà voce a dubbi: «È giunto il momento che i leader accettino la proposta di Hamas. Se questo è l’inizio d’un patto più ampio, sarà fantastico e potremo vedere le famiglie riunirsi. Ma se ci si ferma qui, assisteremo a una frattura che non sono sicuro potremo sanare». «Se invadete Gaza, per i nostri è la fine!», ha gridato giovedì un padre, incontrando il delegato di Netanyahu. «Dipende solo da Hamas», ha allargato le braccia il funzionario. «Ma avevate detto che si poteva fare anche un accordo parziale!». «Non c’è spazio per un accordo parziale che lasci indietro alcuni ostaggi e Hamas al potere». «Mio figlio è in condizioni disperate!». Risposta gelida: «Stiamo facendo attenzione, ma un rischio per gli ostaggi in effetti c’è».

Il doppio passo di Netanyahu è lanciare un’azione militare e intanto cercare un accordo per il rilascio. «Siamo alla fase decisiva», dice il premier: «L’Idf mi ha mostrato i piani per la sconfitta di Hamas e ho incaricato i negoziatori per il rilascio di tutti i nostri ostaggi. Le due cose vanno di pari passo». I militari in realtà credono che espandere la guerra sia un azzardo.

Il premier però va avanti. Può contare sul sostegno di Donald Trump, che chiede la distruzione di Hamas, «unico modo per riportare a casa gli ostaggi», e questo nonostante l’ambasciatore Usa a Gerusalemme, Mike Huckabee, abbia avvertito che un’operazione a Gaza potrebbe metterli in pericolo. «È l’atteggiamento tipico di Bibi», commenta l’editorialista Idan Kweller: «Si tiene aperte tutte le opzioni. Cerca d’ottenere un risultato militare e insieme politico, ma le possibilità di farcela sono inesistenti: le sue condizioni sono inaccettabili per Hamas». A giustificare tanta intransigenza di Netanyahu, osserva Kweller, non vale nemmeno il solito ricatto politico d’un ministro ultrà come Bezalel Smotrich, che minaccerebbe l’uscita dal governo casomai il premier facesse retromarcia: per facilitare un accordo, dall’opposizione c’è Benny Gantz che s’offre d’entrare in coalizione: «Se il mio ingresso serve a liberare gli ostaggi e se non c’è altro modo, non farò nemmeno un quarto di calcolo politico».

Ma a che punto è la notte? Le informazioni che trapelano alle famiglie sono poche. Eyatar David e Rom Braslavsky, le larve umane che tutto il mondo ha visto nei video diffusi da Hamas, nessuno sa dire se siano ancora vivi. E l’ostaggio più anziano (Arie Zalmanowicz, 85 anni), i due più giovani (Daniel Oz e Itay Chen, 19 anni), l’unica donna, Inbar Hayman, 27 anni, presa mentre ballava al rave party: loro sono morti di sicuro e nessuno sa se i loro corpi torneranno. Né ora, né mai.

23 agosto 2025 ( modifica il 23 agosto 2025 | 09:27)