di
Gaia Piccardi
La sorpresa di Wimbledon Flavio Cobolli affronta gli Us Open: «Mi piaceva il pallone, un po’ meno l’ambiente. Ho scelto io di lasciare: i miei non si sono intromessi»
«Io e papà ci sediamo spesso a tavolino. Parliamo tanto: cosa si può fare di più e di diverso? Ogni settimana che passa mi sento un giocatore migliore, ogni giorno acquisisco un po’ più di consapevolezza. Vedevo sguardi diversi in spogliatoio già prima dei quarti a Wimbledon con Djokovic. Ora mi ascoltano, e io sono più al centro dell’esistenza che ho preferito al calcio».
Non è obbligatorio convivere con il demone del tennis. Esiste un modo risolto di affrontare la vita del top player. Flavio Cobolli, top 30 (n.17 come best ranking), terzo italiano in classifica dopo Sinner e Musetti, alla vigilia dell’Open Usa prova a spiegare come.
Flavio, quando si è accesa la lampadina?
«A Bucarest, lo scorso marzo. Il tennis è bello perché ogni lunedì ti dà una nuova opportunità di capovolgimento. Venivo da otto kappaò di fila, che si spiegano con l’infortunio di fine 2024. Ho avuto un periodo di grande tristezza, che non mi appartiene: io nasco cuor contento, sempre, forse troppo. Non mi capacitavo di come non riuscissi a uscire da quel buco nero. Non ero felice in campo, e la testa nel tennis è tutto. Sono entrato in sfiducia ma a Bucarest, in un attimo, è cambiato tutto. Il primo titolo Atp, la fidanzata che piange, i complimenti… Ero nulla e di colpo mi sono sentito il più forte del mondo. Una partita non ti definisce, non dice chi sei, lo so: però in Romania ho compreso che per essere un top player devo lavorare con continuità. Devo volerlo sempre, ogni giorno. A giorni alterni, non basta».
Volere è potere. All’inizio di questa storia, lei volle lasciare il calcio per il tennis. Perché?
«Fino ai 14 anni mi sono considerato un calciatore al 100%. Non avevo dubbi. Il calcio è ancora il mio sport preferito. Poi l’As Roma mi ha messo alle strette: non potevo più fare due sport insieme. Firma il contratto, mi hanno detto. In quel momento mi sono reso conto che a me piaceva il pallone, un po’ meno l’ambiente: mi sentivo solo e diverso, ero un tennista nel corpo di un calciatore. In campo, inoltre, mi piace lottare da solo: le cavolate me le devo intestare tutte io. Sono un freddo, non ho paura di niente ma con il pallone tra i piedi avvertivo più pressione che divertimento. Il tennis invece mi faceva sentire libero. Da calciatore non mi sarei mai espresso con la libertà che ho oggi».
Zero rimpianti, quindi.
«Credo di aver fatto la scelta giusta. La scelta giusta per me».
Terzino nelle giovanili della Roma, allenato dal grande ex Bruno Conti. Nessuno, in società o in famiglia, ha provato a farle cambiare idea? Nessuno le ha detto: occhio Flavio che fai una cavolata?
«Ho fatto tutto da solo. Papà tifava per il calcio, mamma per il tennis. Ma non hanno detto una parola, e nessuno mi ha fermato».
Sta descrivendo due genitori non comuni.
«Li amo anche per questo. Quanti si sarebbero intromessi? In Italia, poi! Quando mi hanno fatto socio onorario al Tc Parioli, li ho ringraziati pubblicamente: ho sbagliato tante volte e non mi hanno mai giudicato. Sono stato lasciato libero di fare le mie cazzate».
È anche per gratitudine che ha scelto suo padre Stefano come coach?
«Fino a 15 anni non ho mai parlato di tennis con papà. Il mio allenatore era Vittorio Magnelli: lui non s’immischiava. Mi sono rivolto a mio padre quando sono stato pronto. Da lì in poi, è successo tutto in modo naturale. Gli inizi non sono stati facili: stiamo maturando e crescendo insieme, non tutti i giorni sono uguali».
Il rapporto padre/figlio nello sport è delicatissimo. Può produrre meraviglie ma anche disastri.
«Ci siamo dati regole minime: quello che ci diciamo in campo, resta lì; e se litighiamo, e succede, anche di brutto, non ci portiamo la rabbia a casa. Lui sa fare il padre, io so fare il figlio. I confini sono importanti. Siamo due persone chiuse, che non mostrano le emozioni con facilità. Ci sforziamo: lui è il re degli abbracci paraculi, io so farmi perdonare con le mie battutine sceme».
Vederlo piangere come una fontana a Wimbledon, quindi, è valsa più di una vittoria.
«È stata un’emozione incredibile. Quando ho battuto Cilic qualificandomi per il quarto sul centrale con Djokovic, ho evitato il suo sguardo. Ho cercato quello dei miei amici: avevo paura di crollare. Non mi andava di piangere come un bambino davanti a tutti».
In quale anfratto dell’inconscio ha seppellito le sue ossessioni, Flavio? Come si può essere top 30 senza il demone del tennis?
«Il demone aiuta, lo riconosco. Il tennis è un mondo complicato: viaggiamo dieci mesi all’anno, perdiamo più di quanto vinciamo, è una vita che può mandarti ai matti. Io personalmente mi considero normale: mi diverto, mi sento dentro un’eterna vacanza. Provo sempre a dirmi che è tutto bellissimo, perché lo è. Sono un ragazzo fortunato».
Con un amico molto speciale, Edoardo Bove.
«Edo è il mio eroe. Un fratello, a maggior ragione dopo ciò che gli è successo. Ogni giorno mi sveglio augurandomi di rivederlo di nuovo in campo, da calciatore: se lo merita. Ha avuto la forza di reagire. L’ho voluto con me a Wimbledon perché è un puro, un’anima semplice come me. Il legame è fortissimo: mi rivedo in lui continuamente. Ecco perché è giusto che io sia spensierato».
Domani scatta l’Open Usa, ma qual è la lezione imparata a Wimbledon?
«Ho capito che i sogni si possono realizzare solo credendo in se stessi, che posso giocarmela con tutti, anche con il leggendario Djokovic, la persona che stimo di più in assoluto nel tennis. Wimbledon è stata un’esperienza di vita meravigliosa, spero di essere all’altezza anche a New York».
L’idolo Totti, il mito Djokovic, l’eroe Bove. Nel suo pantheon, Sinner dove sta?
«Avere un numero uno italiano, dà solo vantaggi: ti senti motivato a dare di più ma puoi lavorare in pace perché tutta l’attenzione è su Jannik. Sinner lo conosco meno bene del mio amico Musetti però lo guardo tanto, cerco di carpire ogni piccola cosa da un campione così grande. Credo che anche per Jannik la famiglia sia stata fondamentale, la nomina sempre. Sinner fa in modo che ormai in Italia non ci si stupisca più di niente, ma il sopracciglio, prima o poi, vorrei farvelo alzare pure io».
Chi è
- Flavio Cobolli, 23 anni, ha vinto due titoli Atp. Negli Slam a luglio è arrivato ai quarti a Wimbledon, risultato che gli ha permesso di risalire fino al 17°posto del ranking
- Fino a 14 anni ha giocato a calcio, nelle giovanili della Roma, la sua squadra del cuore. Terzino promettente, ha avuto Bruno Conti come tecnico. Poi ha scelto la racchetta
- Allenato da papà Stefano, a inizio anno perde subito agli Australian Open e nei successivi quattro tornei. Ad aprile la vittoria al Romanian Open e la svolta
- É grande amico di Edoardo Bove, ex compagno di squadra alla Roma. I suoi idoli sono Djokovic e Totti
23 agosto 2025 ( modifica il 23 agosto 2025 | 06:59)
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