Il più grande pregio di Warfare, in sala dal 21 agosto, coincide anche con il suo limite più evidente. Lo suggerisce già il sottotitolo italiano, Tempo di guerra, che inquadra l’opera del veterano Ray Mendoza, affiancato alla regia da Alex Garland. Il film racconta un episodio realmente vissuto da Mendoza: nel 2006, un’unità della Navy SEAL rimase intrappolata in una casa irachena durante un attacco a sorpresa. Warfare non è altro che questo. Ma qui si racchiude tutto.
L’attesa claustrofobica dello scontro
Il film è costruito con un’attenzione estrema allo spazio e al tempo: lo spettatore vive il «qui e ora» insieme ai protagonisti, come se fosse chiuso con loro in quelle quattro mura. Non c’è ricerca di psicologie profonde né di retroscena rassicuranti. Tutto resta confinato a ciò che accade davanti agli occhi, in quell’istante sospeso in cui fratellanza e sopravvivenza coincidono. È proprio nel microcosmo militare, forgiato dalla paura e dalla necessità, che emerge il legame indissolubile tra i soldati. Così il pubblico è trascinato in una sorta di soggettiva collettiva, dove nulla è messo in scena se non ciò che davvero può accadere – e che, nel caso di Mendoza, è accaduto.
Cinema o esperienza immersiva?
Il film gioca costantemente sul confine tra voyeurismo e partecipazione diretta, avvicinandosi al linguaggio dei videogiochi che da tempo sperimentano questa forma di immersione. La sensazione è quella di trovarsi nel cuore dell’azione, senza vie di fuga e senza digressioni. Warfare si apre e si chiude nello stesso perimetro, senza concedere spiegazioni, senza bisogno di un «prima» o di un «dopo». È una scelta coerente e radicale, che però lascia la narrazione in una zona ambigua: efficace sul piano concettuale, ma più fragile su quello emotivo. Perché, se la guerra è solo violenza e disperazione, resta il dubbio che ci sia poco spazio per altro.
Un cast al servizio della tecnica
Mendoza e Garland spogliano i personaggi di qualunque sfumatura psicologica. Non c’è analisi dei turbamenti, né interrogativi sulle ragioni che hanno portato quei soldati in Iraq. L’operazione rimane personale, quasi privata, e per questo non si allarga mai a una riflessione più ampia sul conflitto, sulle sue contraddizioni o sulle sue conseguenze. Il film diventa così una vetrina da osservare più che una porta da attraversare.
È il ribaltamento del discorso portato avanti da Civil War – sempre di Garland – che nel 2024 affrontava, con lucidità disturbante, l’ipotesi di una guerra civile americana, scavando nelle sue radici politiche e ideologiche. In Warfare invece la tecnica prende il sopravvento: la regia di Mendoza cura con ossessione l’uso delle armi, delle procedure e persino della postura dei soldati, come mostrano i titoli di coda. Sul piano estetico pesa la mano di Garland, soprattutto nella fotografia e in un sound design che amplifica lo smarrimento dello spettatore, restituendo un’esperienza sonora quasi fisica.
Il risultato è un film chiuso in se stesso, rigoroso nella sua forma, ma incapace di aprirsi a un respiro più ampio. Warfare – Tempo di guerra rimane così soprattutto la memoria di chi l’ha vissuto, più che un’opera capace di restituire al pubblico l’eco di un conflitto che continua a interrogare la nostra epoca.