Una visitatrice al Robot Mall, il primo store al mondo dedicato ai robot umanoidi appena inaugurato in Cina – .
Fino a ieri ci aveva abituati a robot umanoidi che ballano (goffamente), improvvisano partite di calcio (non proprio spettacolari), partecipano a eventi culturali, fanno i camerieri o i “guerrieri”, mimano insomma i comportamenti umani. Ma la Cina sembra volere esplorare un altro (inquietante) orizzonte: quello della “moglie robot”, un robot “capace di portare a termine una gravidanza”. La “rivoluzione” – come si è affrettata a presentarla il suo ideatore – arriva dalla startup Kaiwa Technology, con sede a Guangzhou, che si è detta pronta a sfornare un robot umanoide dotato di un utero artificiale che – sempre secondo quanto afferma l’azienda – sarebbe in grado di replicare il processo gestazionale umano, dal concepimento al parto. «Alcune persone – ha spiegato Zhang Qifeng, il fondatore di Kaiwa – non vogliono sposarsi, ma desiderano comunque una “moglie”; altre non vogliono rimanere incinte, ma desiderano comunque un figlio. Quindi una delle funzioni della nostra “moglie robot” è quella di poter portare avanti una gravidanza».
Al momento appare solo una trovata pubblicitaria ben riuscita, che però dice più di tante lezioni di antropologia e bioetica messe insieme. Stiamo parlando del “robot in gravidanza”, la notizia arrivata dalla Cina e rimbalzata ovunque: alla modica cifra di circa 12.000 euro (stesso ordine di grandezza di una Panda modello base) dal prossimo anno sarebbe disponibile un prototipo di umanoide in grado di portare avanti una gravidanza, supportando lo sviluppo di un embrione umano per nove mesi, fino alla nascita. Che la notizia sia di per sé poco credibile lo dicono il prezzo e la tempistica dichiarati da Zhang Qifeng, il fondatore della start-up Kaiwa Technology, con sede a Guangzhou, che ha presentato l’iniziativa alla World Robot Conference 2025 di Pechino. La diffusione planetaria di quella che ha tutte le caratteristiche di una trovata sagace per far conoscere la start up cinese – a prescindere dalle ricerche su cui sta lavorando, che vanno misurate in brevetti e pubblicazioni – è dovuta all’oggetto della tentata impresa: cercare di far nascere un bambino eliminando la mamma.
Il nome tecnico è “ectogenesi”, in gergo “utero artificiale”, ne ha parlato per primo all’inizio degli anni venti del secolo scorso il genetista inglese J.B.S. Haldane, nel suo celeberrimo Daedalus, or Science and the Future, e risalgono agli anni ’50 studi pioneristici per riprodurre alcune funzionalità dell’apparato riproduttivo femminile. La svolta, però, è stata nel luglio del 1978, con la nascita di Louise Brown, la prima nata concepita in provetta: un salto quantico sotto ogni punto di vista, di gran lunga più significativo di qualsiasi altra innovazione tecnologica, probabilmente la rivoluzione più sottovalutata nella storia dell’umanità. Da quel momento, infatti, non solo si è reso visibile il mistero per eccellenza – l’inizio dell’esistenza di una vita umana – ma è diventato possibile, per la prima volta nella storia, far partorire a una donna un figlio non suo.
Solo con la fecondazione assistita, infatti, si può separare il concepimento dalla gravidanza e trasferire nell’utero di una donna un embrione geneticamente legato a una donna diversa, e quindi sdoppiare la figura materna: una madre genetica e una gestante. E se il legame genetico trasmette i tratti personali – fisici e non – ed è l’unico a determinare la paternità, resta però indubbiamente meno impattante e coinvolgente della gravidanza e del parto, che danno significato al materno: si può certo essere madri senza aver partorito – chiamiamo madri, per esempio, le suore, per sottolinearne la dedizione come scelta di vita – ma sempre per analogia all’esperienza della gravidanza e del parto.
L’utero artificiale è quindi la frontiera di chi vuole eliminare la differenza fra uomo e donna che caratterizza la specie umana: cancellare il vissuto della gravidanza dalla vita di ogni essere umano significa togliere quel legame unico che esiste, da sempre, fra ogni madre e suo figlio, ed equivarrebbe a creare una umanità radicalmente differente da quella che abbiamo conosciuto tutti finora. Dal punto di vista tecnico siamo ancora lontani dalla sua realizzazione, anche se periodicamente il tema torna alla ribalta: per esempio nel 2017, quando un feto di agnello fu tenuto in vita per alcune settimane in una “bioborsa” che riproduceva le condizioni intrauterine. In quel caso a colpire l’immaginazione erano le foto: l’animale era visibile perché la “borsa” era trasparente, e lo si poteva osservare mentre cresceva. Era un agnello fatto nascere prima del tempo, con un cesareo, e lo studio, come molti di questo tipo, poteva contribuire alle conoscenze per la sopravvivenza dei prematuri estremi. Per l’utero artificiale cinese di cui si è parlato in questi giorni, invece, a suscitare interesse è la promessa di una macchina umanoide: una incubatrice che riproduce la forma umana, che ovviamente non è necessaria dal punto di vista tecnico – basti pensare alle incubatrici per prematuri negli ospedali – ma colpisce il simbolico del materno, perché suggerisce che la sostituzione della madre può essere totale e pienamente efficiente grazie alle nuove tecnologie. Sarà mai possibile?
