di
Giusi Fasano
Intanto dopo lo scandalo gli iscritti lasciano Facebook (per spostarsi su Telegram), mentre sempre più donne raccontano la loro storia: «La cosa peggiore è che lui non capisce, non vede la gravità, minimizza»
«Quello che ho letto su di me è stato agghiacciante. Mi sono sentita sbagliata, spezzata in due», un misto di «ribrezzo, sconforto, delusione, paura». Dopo la donna che ha raccontato tutto in un’intervista al Corriere, ecco un’altra delle mogli finite a loro insaputa nel gruppo Facebook sul quale in tanti pubblicavano le fotografie intime delle loro partner.
«Mia moglie», la comunità virtuale di 32.358 guardoni, è una piazza chiusa mercoledì da Meta su indicazione della Polizia postale, ma la ferita di chi ha scoperto di essere stata «esposta come merce al mercato» resta quanto mai aperta. E con il passare dei giorni cresce il numero delle donne che escono allo scoperto e scrivono post, che si rivolgono alle associazioni antiviolenza o alla polizia postale.
Il coraggio di parlare
Quella signora che scrive «mi sono sentita sbagliata» in una testimonianza raccolta dalla Rete Dire (Donne in rete contro la violenza) aggiunge che «la mia situazione è molto complessa, lui non vuole andar via, mi urla contro e mi accusa di voler sfasciare il nostro matrimonio per una scemenza. Dice che sto esagerando, che sto esasperando tutto, che il suo era solo un gioco per vantarsi della mia bellezza».
Una ragazzata, una goliardata, una cosa da niente. Pare siano queste le parole chiave di chi viene smascherato. Quasi che si aspettino un grazie per aver «decantato» con decine di migliaia di estranei doti, misure, performance sessuali e virtù della propria moglie, o compagna, o amante.
La pagina Facebook «Aggiornamenti quotidiani sulle bugie dette dagli uomini» pubblica un’altra storia verificata: «Qualche giorno fa ho scoperto di essere finita, a mia insaputa, nel gruppo “mia moglie”», attacca il racconto. «Non avevo idea di niente, neanche lontanamente. Quando l’ho affrontato lui ha detto che era solo un gioco, che non significava nulla. Ma come può essere un gioco prendere foto private, momenti di vita vera e condividerli con sconosciuti? Abbiamo tre figli e quasi sedici anni di matrimonio, e io scopro così che la mia vita è stata esposta come se fossi un oggetto. Mi sento tradita in un modo che faccio fatica perfino a spiegare. Non è solo dolore, è vergogna, rabbia, disgusto. È come se ogni certezza della mia esistenza fosse crollata. E la cosa peggiore è che lui non capisce, non vede la gravità, minimizza».
Il nodo del consenso
Nel gran discutere di questi giorni sul gruppo Facebook diventato scandalo si è perso di vista il tema fondamentale, che non è pubblicare fotografie più o meno intime (tra l’altro su una pagina aperta e visibile dall’universo mondo) ma pubblicarle senza il consenso delle interessate. Un reato. E, al di là del reato, non si tratta di moralismo per la fotografia che piace al guardone di turno ma di mancato rispetto per la persona che si mette in mostra, appunto, come merce sulla bancarella. Tra l’altro con un seguito di commenti e controcommenti per lo più indecenti.
La Polizia Postale di Roma ha appena consegnato in procura la sua prima informativa sul caso. Poche pagine per parlare del numero impressionante di segnalazioni di protesta contro il gruppo (ne hanno ricevute circa 3000 in due giorni); per scrivere della richiesta di chiusura presentata a Facebook; per chiedere alla procura il decreto di chiusura da notificare; per ipotizzare i reati possibili e — il dettaglio più importante — per chiedere ulteriori indagini. E cioè quelle necessarie per identificare gli uomini che hanno postato le foto e per capire se quelle foto sono reali e se c’era o meno il consenso alla pubblicazione.
L’inchiesta che cresce
«So bene che ci vuole tempo per ammortizzare il colpo e per prendere una decisione del genere. So che psicologicamente è dura, ma è molto importante che chi si è riconosciuta ed è finita nel gruppo a sua insaputa presenti una denuncia» è l’appello di Barbara Strappato, la prima dirigente della Polizia postale che ha firmato l’informativa.
Denunciare è fondamentale anche perché i reati che potrebbero essere contestati (per esempio la diffamazione o il revenge porn) sono perseguibili soltanto con una querela di parte, cioè della vittima, che ha sei mesi di tempo per firmarla dal momento in cui viene a conoscenza del fatto.
È possibile che il numero di denunce con le quali partirà l’inchiesta (alcune donne hanno già annunciato di volersi rivolgere a forze dell’ordine e avvocati) sia solo la punta dell’iceberg: molte delle donne pubblicate potrebbero essere ancora oggi ignare e sapere in futuro dalle indagini di essere state vittime. Anche perché da quando è scoppiato il caso a quando la pagina è stata chiusa sono passati pochi giorni e, chi non lo aveva mai fatto, non ha avuto molto tempo per entrare nel gruppo e scorrere le immagini incappando magari in una sua foto, com’è successo alla donna di 46 anni che ha raccontato tutto in un’intervista pubblicata ieri dal Corriere.
E in mezzo a tutto questo la domanda che resta è: dove sono finiti gli irriducibili di «Mia moglie»? Loro stessi hanno annunciato nei giorni scorsi la migrazione su Telegram, «un posto più sicuro, in c… ai moralisti». Il giorno della chiusura del gruppo era raggiungibile (ora non più) un canale Telegram su cui spostarsi che aveva come titolo «Le nostre mogli»: 1007 iscritti in meno di 12 ore. Ma non è chiaro se nome e canale siano rimasti gli stessi o se il gran caos di questi giorni e lo spauracchio dell’inchiesta abbiano modificato i loro piani. Quel che invece è chiaro è che in tantissimi, dopo la circolazione dei loro nomi come frequentatori e commentatori del gruppo, si sono cancellati da Facebook. Chissà quale scusa si sono inventati con le loro mogli…
24 agosto 2025
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