In un impasto di dolore e ironia la protagonista di Cartagloria, che è la stessa autrice Rosa Matteucci (il 5 settembre a Festivaletteratura di Mantova), racconta la sua vita sgangherata alla ricerca del trascendente. Un viaggio che parte dall’Umbria, dalla dilapidata villa di famiglia, continua attraverso l’India dei santoni, la Lourdes di Bernadette e una corrente di buddismo laico, passando per le sedute spiritiche del padre tanto amato e perfino per un frate esorcista che vende messalini e app per ascoltare il rosario.

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Il grottesco e il comico (perfino nel racconto delle esequie del padre) sono l’impalcatura che sorregge una vista straziante, di abbandono e incurie. Rosa bambina ha sofferto la fame, come i suoi numerosi cani, e la sua condizione di essere sempre affamata diventa destino. La madre anaffettiva non la vuole, il padre scapestrato gioca d’azzardo, la famiglia un tempo altolocata è in declino, ma in ogni pagina di questo romanzo si ride con le lacrime agli occhi. Anche grazie a una lingua ipnotizzante, che prende il lettore e lo avvolge dentro termini alti, dialettali, ricercati e desueti, precisi e cristallini.

Rosa Matteucci (Ph: Isabella De Maddalena).

Che cos’è la cartagloria del titolo?
Le cartegloria sono tabelle liturgiche della messa in latino. Ogni tanto il prete deve dare un’occhiata per non dimenticarsi le parole. Ho scelto questo titolo proprio per ricordare di buttare l’occhio, ogni tanto, verso il trascendente o verso qualsiasi cosa in cui si creda.

Il registro grottesco e autoironico è un modo per lei di allontanare la sofferenza?
Quella rimane, ma per me è l’unico modo di raccontarla. Non si possono rimarginare le ferite di una bambina cui non si è mai detto ti voglio bene, che andava a scuola senza libri, che d’inverno rischiava l’ipotermia.

Cartagloria di Rosa Matteucci, Adelphi, 153 pagg, 18 €

Dice di essersi sentita, da piccola, un’orfana con i genitori viventi. E da adulta?
Mi sono sempre sentita così, sempre alla ricerca di figure genitoriali. In particolare della mamma.

Sua madre nel libro, a proposito della sua nascita non desiderata, pronuncia una frase: «Fosse stato per me…».
L’ha detto davvero ed è impossibile dimenticarlo. In tutti questi anni ho fatto un lavoro faticoso, quella bambina sta dentro di me ancora oggi, l’ho accudita in maniera postuma. Queste infanzie sanguinose e terrificanti o ti accoppano o ti fanno sviluppare una grande voglia di vita e nutrono la fantasia e l’intelletto.

Il suo più grande desiderio era fare la prima comunione. I suoi non l’hanno permesso. È stato il primo trauma della sua infanzia?
Sì, la prima esclusione sociale. La facevano tutti, a scuola i compagni parlavano della festa, dei vestiti, dei regali. E io niente.

L’affannosa ricerca di spiritualità parte dal bisogno di essere accettata e amata?
Sì. Inoltre, la morte mi fa paura e il trascendente è qualcosa che offre un appiglio. Se si crede che dopo questa sgangherata avventura, piena di errori, deviazioni e false partenze, ci sia qualcos’altro, allora tutto diventa più accettabile.

Racconta il rocambolesco funerale di suo padre, che inizia con uno scambio di bare e continua con alcune scene esilaranti. Non le dispiace che si rida di questa tragedia?
In tutti i funerali c’è qualcosa di ridicolo. È un meccanismo inconscio per rendere la tragedia meno dolorosa.

Dopo essersi sottoposta a esorcismo con scarso risultato ed essere stata respinta dal buddismo «perché dentro di lei c’è troppo dolore», trova pace nella messa in latino. Cosa c’è di salvifico in questo rito?
La messa in latino, in particolar modo cantata, che è stata bandita nelle parrocchie nel 2021 ma si celebra ancora in qualche oratorio, per me è una grande terapia. La ripetizione delle parole, tipo mantra, lenisce e dà gioia. C’è una gestualità particolare, diversi tipi di genuflessioni, il segno della croce, il chinare la testa in un certo modo. È un patrimonio archetipico di gesti che l’umanità si porta dietro dalle origini e che tornano nelle varie religioni. Vorrei fare una supplica a Papa Leone XIV perché acconsenta a celebrare questo rito liberamente.

Quindi ha trovato quello che cercava?
Ho capito che se si accetta di portare la croce, ma davvero, con il cuore, a quel punto si diventa liberi e si affronta tutto in chiave diversa.

Si sente libera oggi?
Sì. Ho accettato la mia croce dopo un processo molto doloroso durante il quale bisogna mettere da parte la razionalità e il pensiero, che confliggono profondamente con i dogmi. Percepisco ancora un senso di inadeguatezza ma mi sento più forte.

Fa lavoro di ricerca sulla sua lingua letteraria?
È spontanea. Scrivo come parlo. È frutto di tante letture, anche strampalate, come le riviste di fine Ottocento. Tra gli scrittori che mi hanno influenzata ci sono Émile Zola e Tommaso Landolfi. Mi piacciono i termini precisi e tecnici e imparare parole nuove. L’italiano ha una ricchezza incredibile che purtroppo stiamo perdendo.