Un dato netto emerge dall’ultima indagine dell’Osservatorio Sanità realizzata da Nomisma per UniSalute: a Torino cresce la consapevolezza sull’importanza della prevenzione, ma questa consapevolezza non si traduce in azioni concrete. Se l’86% degli intervistati dichiara infatti che controlli e visite siano “molto” o “estremamente” importanti, solo il 45% li effettua regolarmente.

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Il quadro rivela un atteggiamento attendista: il 30% dei torinesi preferisce aspettare la comparsa dei primi disturbi prima di rivolgersi a un medico, mentre il 23% ammette di farlo soltanto quando è già presente una malattia diagnosticata. Questo comportamento comporta conseguenze evidenti. Un torinese su sei (17%) non esegue analisi del sangue da oltre tre anni, il 25% non ha mai fatto un esame cardiologico o un elettrocardiogramma e quasi la metà (48%) non si è mai sottoposta a una visita dermatologica per il controllo dei nei.

Preoccupante anche la situazione per la salute femminile: il 34% delle donne non si reca dal ginecologo da almeno tre anni, il 38% non ha effettuato un Pap test nello stesso arco di tempo e il 34% non si è mai sottoposta a un’ecografia al seno, un esame ritenuto centrale per la diagnosi precoce.

Le ragioni che frenano i torinesi sono diverse. Per il 57% di chi non ha fatto prevenzione nell’ultimo anno il motivo è l’assenza di sintomi, segno che la cultura della prevenzione fatica a radicarsi pienamente. A ciò si aggiungono ostacoli strutturali: il 30% indica i lunghi tempi di attesa, il 15% i costi delle prestazioni e il 16% confessa di rinunciare ai controlli per paura di ricevere cattive notizie.

Chi invece ha scelto di sottoporsi a esami preventivi lo ha fatto in gran parte di propria iniziativa (34%) o su raccomandazione del medico di base (30%). Nel 52% dei casi ci si è rivolti al servizio pubblico, mentre il 41% ha scelto strutture private, spesso in convenzione con il Servizio sanitario nazionale.

L’indagine mette in luce un paradosso: la prevenzione è riconosciuta come essenziale, ma rimane sottovalutata nella pratica quotidiana. Una distanza che, nel lungo periodo, rischia di tradursi in diagnosi tardive e cure più invasive, con un impatto non solo sulla salute dei cittadini ma anche sui costi complessivi del sistema sanitario.