Nel 1997 Marta Kuzma, allora direttrice del Soros Center for Contemporary Art di Kiev, invitò l’artista greco Jannis Kounellis a esporre nell’antico palazzo barocco dell’Accademia Mogila. Per quell’occasione, Kounellis realizzò un’installazione unica: 16 campane antiche ucraine collocate sulla sommità di travi metalliche, un progetto che univa memoria storica e critica della contemporaneità. La scelta delle campane era precisa: a partire dal 1929, il regime sovietico aveva requisito e distrutto gran parte dei simboli religiosi, ufficialmente per motivi industriali.
La richiesta di Kounellis mise in difficoltà anche Kuzma; né la chiesa ortodossa né il Ministero sembravano collaborare, e solo l’intervento di una fonte anonima permise di rintracciare le campane e realizzare l’installazione. L’episodio rivelò l’entità del rapporto coloniale storico tra Russia e Ucraina, legato al ruolo della chiesa nel governo, che, secondo lo storico Serhiy Plohy, «corrispondeva pienamente alla politica più ampia dell’amministrazione presidenziale sulla questione della nazionalità, della cultura e della lingua».
Ventotto anni dopo, Kuzma torna in Ucraina come direttrice artistica e curatrice di Faktura 10, un programma multimodale che esplora il dibattito culturale emergente nel paese, concentrandosi sulle pratiche artistiche sviluppatesi nell’immediatezza della guerra e delle sue conseguenze. Il progetto comprende dieci eventi – tra mostre, performance, spettacoli teatrali, proiezioni, progetti di ricerca e dibattiti – che si terranno nel 2025, sia in Ucraina sia in comunità e città solidali a livello internazionale, promosso da Ribbon International, piattaforma no-profit che sostiene le arti e la cultura ucraina, storiche e contemporanee.
Jannis Kounellis il poeta visionario del quotidiano
MANUELA GANDINI
01 Giugno 2019
Uno dei progetti di Faktura 10 è Untitled 1997/2025, la riattivazione dell’installazione di Kounellis. A 28 anni di distanza, l’opera assume nuovi significati, rivelando l’intuizione e la visione curatoriale di Kuzma, capace di far dialogare arte, memoria storica e contesto contemporaneo.
Lei è stata tra le prime figure a costruire uno spazio per l’arte contemporanea in Ucraina negli anni ’90. Che memoria ha di quel tempo e come lo confronta con il presente?
«Negli anni ’90, a Kiev, non esisteva alcuna struttura per l’arte contemporanea. C’erano solo l’Accademia e l’Unione degli artisti. Ho impiegato due anni a scoprire un tessuto alternativo, nascosto, che viveva tra Kiev, Odessa, Leopoli. Ma era invisibile, non riconosciuto. Oggi la situazione è diversa: dopo Maidan e soprattutto dopo il 2014, quella struttura sovietica è stata lentamente sgretolata. L’arte si è spostata in uno spazio di responsabilità pubblica e di impegno».
Nel 2022, con la seconda invasione russa, lei, da Yale, è tornata in Ucraina. Cosa ha significato?
«Ero in sabbatico e ho sentito che non potevo rimanere fuori. Sono arrivata a marzo, mentre i russi erano ancora a Buča e a Kiev. Non ero lì per vedere artisti, ma con un collega psicoanalista. Abbiamo incontrato medici, comunità, donne, bambini. Era evidente che prima di qualsiasi discorso sull’arte c’era la necessità di affrontare la ferita psichica. Da lì è nata una rete tra il Centre Primo Levi di Parigi, gli ospedali a Leopoli e i colleghi a Yale. Prima laboratori clinici, poi riflessione, poi ancora il bisogno di creare un programma che tenesse insieme queste esperienze».
Ed è così che nasce Faktura10.
«Sì. Faktura non è una mostra ma un campo di forze. È discorsivo, interdisciplinare. Tiene insieme arte, psicoanalisi, filosofia, ecologia. Non nasce per produrre oggetti, ma per restituire contesto e voce a un paese in guerra. L’arte, qui, non è un fine ma una possibilità di relazione, un gesto civile».
Lei dice spesso che oggi in Ucraina l’arte non è oggetto ma impegno. In che senso?
«Gli artisti non si limitano a creare opere. Alcuni lavorano con i giornalisti che indagano crimini di guerra o ecocidi. Altri sono coinvolti nella produzione di droni. Altri ancora ricostruiscono archivi. Tutti hanno qualcuno al fronte o qualcuno che non c’è più. È qualcosa che ricorda il WPA americano degli anni Trenta: l’arte come responsabilità collettiva, come lavoro per la comunità».
Un’opera centrale di Faktura è il riallestimento del lavoro di Jannis Kounellis. Perché è così importante?
«Quando nel 1997 Kounellis mi chiese di trovare campane liturgiche, trovammo tutte le porte chiuse: la questione religiosa era intrecciata con il potere politico, con le tensioni tra la Chiesa ortodossa russa e quella cattolica. Solo grazie a un contatto anonimo, una sorta di “gola profonda”, le campane arrivarono, ma senza battagli. Kounellis disse: “Non importa. L’opera non è nella funzione, ma nel potenziale”. Ora, alcune campane sono le stesse del ’97; ancora una volta, molte erano mute. Ma stavolta gli artigiani locali hanno riforgiato i battagli».
Come cambia il significato di quell’opera oggi, in piena guerra?
«Nel 1997 era una riflessione sulla memoria e sul potere religioso. Oggi, durante l’invasione, diventa un lavoro sul silenzio, sulla sospensione, sull’impossibilità di nominare. È una domanda: come si può ancora fare arte dopo la guerra? Come si può parlare, se la lingua manca?».
Kiev
È questo il senso di “Stammering Circle”, il programma discorsivo che lei ha avviato?
«Sì. “Stammering Circle” nasce pensando a Paul Celan, alla sua ricerca di una lingua possibile dopo la catastrofe. È un tentativo di abitare il balbettio, la mancanza di parole. Parliamo di ecocidio, di trauma, di ritardi nel nominare le cose. Non per produrre risposte, ma per ricostruire una grammatica minima, provvisoria, che permetta di continuare a vivere».
Accanto a questi cicli, Faktura ha ospitato performance, concerti, teatro. Qual è il filo che li lega?
«Un’operetta basata sui dibattiti cantati dell’Accademia Mogila del XVIII secolo, una pièce di Richard Maxwell con attori non professionisti per il Giorno dell’Indipendenza: sono modi diversi per radicare l’arte nella vita quotidiana, nella storia e nel presente. Non c’è spettacolo senza comunità, non c’è linguaggio senza corpo».
In un contesto di conflitto, quanto crede siano importanti la cultura e l’arte per ricostruire i legami tra le persone?
«Mi colpisce profondamente, perché la cultura è la base per comprendere i rapporti tra le persone, vicine o straniere. Ricordo Walid Raad nello “Stammering Circle”, mentre parlava della guerra in Libano e delle difficoltà quotidiane: tutti erano in silenzio, coinvolti emotivamente, perché condividevano esperienze simili, pur venendo da un altro paese e parlando di arte. Non si tratta di arte-terapia, ma di creare connessioni di base tra le persone. L’arte è una vera “prima necessità” per capire il mondo. È qui che accade qualcosa di radicale, ancora senza nome, e proprio per questo appartiene al futuro».