La scomparsa di Pippo Baudo segna la fine di un’epoca televisiva. Come già accaduto per altri protagonisti della “vecchia tv” – da Mike Bongiorno a Raffaella Carrà, a Maurizio Costanzo – il congedo è stato accompagnato da dirette fiume e celebrazioni solenni, con un eccesso di retorica che sembra coprire un vuoto: quello di un ricambio generazionale mai avvenuto. Quei grandi personaggi non hanno avuto veri eredi, e ciò che resta della tv generalista (quella di Rai e Mediaset, distinta per logiche e linguaggi dalle piattaforme streaming e dai nuovi media) sembra vivere soprattutto di nostalgia, di Techetechetè.
È un paradosso: un mezzo nato per il tempo reale, per l’attualità, si scopre ancorato quasi solo al passato, incapace di proporre format nuovi (quelli che resistono appaiono logori e ripetitivi) e di generare figure in grado di lasciare un segno. Certo, la nostalgia può essere una strategia consapevole per trattenere un pubblico che invecchia insieme ai suoi personaggi amati. Il problema sorge quando diventa l’unica strategia, e quando gli sporadici tentativi di innovazione – inclusi i crossover con i social media – naufragano contro l’inerzia di un pubblico che sembra desiderare soltanto conferme.
Se volgiamo lo sguardo all’opera lirica, il quadro appare rovesciato. Qui, dove sarebbe legittimo attendersi solo la ripetizione di un canone antico, assistiamo invece a un costante sforzo di rilettura e attualizzazione. Le regie contemporanee – spesso provocatorie, talvolta discutibili, quando non fallimentari – cercano comunque un confronto con il presente. Non sempre convincono, ma testimoniano che il teatro musicale resta vivo, disposto a rischiare e a suscitare dibattiti.
Basti citare alcuni registi che hanno segnato le scene degli ultimi anni: Damiano Michieletto, forse il più inviso ai melomani tradizionalisti per le sue letture radicali; Davide Livermore, che ha introdotto un uso massiccio delle tecnologie visive; Romeo Castellucci, autore di sperimentazioni estreme sul linguaggio teatrale. O ancora registi stranieri come Calixto Bieito, Olivier Py, Krzysztof Warlikowski, Dmitri Tcherniakov, che hanno portato anche in Italia drammaturgie spiazzanti e destinate a dividere. Ogni volta si accendono discussioni, si alternano applausi e contestazioni. Segno che l’opera non è un monumento imbalsamato, ma un organismo vivo, capace di parlare di noi e di suscitare passioni contrastanti.
E non si tratta solo di regia. Sul piano musicale il repertorio continua a trovare interpreti di alto livello. I grandi vecchi della direzione – da Muti a Mehta, a Barenboim – mantengono vivo un patrimonio interpretativo, mentre una nuova leva di giovani maestri si affaccia con energia, pronta a raccoglierne il testimone. E se è vero che, tra le voci, gli autentici fuoriclasse sono sempre più rari, non mancano cantanti di valore capaci di affrontare un’eredità impegnativa e di mantenerla viva. È questo intreccio tra tradizione musicale e ricerca scenico-drammaturgica a garantire la vitalità dell’opera.
Il paradosso diventa ancor più chiaro se consideriamo il diverso retroterra di due linguaggi strutturalmente diversi. Fra Sette e Ottocento l’opera è un fenomeno popolare: i teatri sono luoghi di socialità in cui si mescolano classi diverse, e il melodramma diventa un codice comune, capace di plasmare un immaginario condiviso. La televisione, nel Novecento, nasce con una funzione simile: medium “nazional-popolare”, strumento di unificazione culturale e specchio del Paese reale. Oggi, però, le traiettorie divergono: l’opera, pur ridotta a una nicchia, conserva vitalità creativa grazie al rinnovarsi delle tradizioni interpretative e a regie che, pur con esiti alterni, cercano nuove letture; la tv generalista, al contrario, sembra aver smarrito quella spinta originaria e si rifugia quasi esclusivamente nella nostalgia, come se la memoria fosse diventata il suo unico contenuto.
Così, mentre i teatri continuano a proporre spettacoli che dividono il pubblico e lo costringono a interrogarsi sul senso del presente, il piccolo schermo appare sempre più un luogo di ricordi, riti funebri e stagnazione. È in questo scarto che si misura non solo la vitalità di due linguaggi che appartengono in modi diversi alla nostra cultura, ma anche la capacità del Paese di immaginare nuove forme di creatività. Perché se perfino l’opera lirica riesce a essere più contemporanea della televisione, qualcosa ci sta sfuggendo sulla natura stessa dell’innovazione culturale.