«Da qualche parte nel Ventesimo secolo», anche se siamo ormai nel Ventunesimo e pare pure peggio. L’aria nei condotti è ancora viziata: tubi che s’insinuano come viscere negli appartamenti, timbri che picchiano come mitragliatrici, schermi (ora meno) convessi che sputano modulistica senza sosta (anche se c’è l’opzione green). Nel 1985 Terry Gilliam, cavaliere errante dei Monty Python e pioniere delle distopie (before it was cool), ha girato il film che ha trasformato la burocrazia nel vero mostro della modernità. Oggi, esattamente quarant’anni dopo (è uscito il 23 agosto), Brazil non è un reperto di archeologia cinefila: è un manuale d’istruzioni del presente, scritto con inchiostro nero, fumo e ruggine.

Quelli bravi la chiamano distopia retrofuturista, una sorta di 1984 firmato da Kafka, arredato da Fellini e illuminato da Roger Pratt, perché qui la tecnologia non è mai glamour: è rumorosa, sporca, analogica, affamata di ricambi. I computer sono scrivanie con lenti d’ingrandimento, le televisioni hanno pance squadrate, i tubi si attorcigliano come anaconda domestiche. È il mondo perfetto per Sam Lowry (Jonathan Pryce), impiegato modello e sognatore professionista, che di notte vola con ali d’eroe art déco verso una donna senza volto e di giorno si perde tra faldoni. Il futuro, ci dice Gilliam, non arriva come un’astronave: somiglia di più a un timbro.

Tutto comincia con un errore: Buttle invece di Tuttle. Una mosca cade dentro una stampante, il cognome sbagliato finisce sul modulo giusto, e l’apparato preciso, diligente, letale, arresta l’uomo sbagliato. È una gag alla Keaton che finisce in tragedia amministrativa. Nel mezzo, la folgorazione: Harry Tuttle (Robert De Niro), il “terrorista dell’idraulica”, l’uomo che ripara condotti fuori dai regolamenti e dai preventivi. Tuttle è il santo patrono dei freelance del mestiere: veloce, competente, allergico alla carta. È l’anti-Stato: entra, risolve, scompare. Non a caso la sua fine più memorabile è sepolta da coriandoli di moduli. Accanto, l’altra faccia del sistema: Jack Lint (Michael Palin), sorriso gentile e guanti di cuoio. E poi Ida, la madre di Sam (Katherine Helmond), devota alla chirurgia estetica del Dr. Jaffe (Jim Broadbent), dove anche la carne diventa burocrazia.

Jim Broadbent e Katherine Helmond in ‘Brazil’. Foto: 20th Century Fox

Brazil è un film sull’aria: l’aria che passa nei condotti, l’aria che manca nelle stanze, quella che entra nei sogni quando Sam vola sopra un paesaggio di rovine. Ma è anche un film, per così dire, sui moduli. Il modulo è la forma che lo Stato prende quando decide di non avere un volto, il timbro è la sua ciliegina sulla torta. Gilliam gira la burocrazia come fosse un genere: inseguimenti tra faldoni, duelli a colpi di gomma, carrelli che scivolano tra scrivanie come gru in un porto. La comicità è slapstick e la tragedia è sistemica. A legare tutto c’è la musica di Michael Kamen che ricama varianti di Aquarela do Brasil: un ritornello che si incolla alla realtà come carta moschicida, e che trasforma la distopia in una malinconia da sala da ballo.

Ma Brazil è anche un film sul totalitarismo, quello che non ha bisogno di stivali che marciano o statue del leader nelle piazze, ma che si insinua nei corridoi ministeriali e nelle carte. È un controllo “morbido”, invisibile, che non chiede fedeltà ideologica ma solo obbedienza cieca alle procedure. Un potere che non si mostra mai con un volto preciso (non c’è un dittatore, non c’è un Grande Fratello), perché è la macchina stessa a governare, fatta di uffici, di regolamenti, di firme e di scarichi di responsabilità. Il terrore non nasce dalla violenza improvvisa, ma dalla normalità con cui gli impiegati accettano che un errore tipografico valga quanto una condanna a morte. Gilliam lo capisce prima di tanti altri: il futuro non sarà di uomini in uniforme che gridano slogan, ma di impiegati che mettono una “X” nella casella sbagliata.

C’è poi la leggenda industriale: un regista che lotta per il proprio finale. Brazil nasce cupo, romantico e crudele (“It’s only a state of mind”, diceva il poster) e arriva a Hollywood dove qualcuno pensa che un happy ending non faccia mai male a nessuno. Gilliam, il barricadero del cinema, si oppone, organizza proiezioni ufficiose, compra pagine su Variety per sostenere la sua causa; i critici di Los Angeles lo adottano e lo spingono in alto. Alla fine esce com’era stato pensato: non un antidoto, ma un avvertimento. Quel finale non consola: è una risata che non apre, una fuga che si chiude in sé.

Oggi, in un 2025 di digitalizzazione estrema, cookie banner che ti obbligano a cliccare senza libertà, AI che sbagliano ma decidono al posto tuo, Brazil sembra sempre meno un incubo futurista e sempre più una sorta di reportage dall’ufficio accanto. La mania della “sicurezza”, la prevenzione a prescindere, la delega cieca agli apparati: tutto era già lì. Un refuso, un campo precompilato, un codice fiscale messo male diventano la farfalla che batte le ali e scatena l’uragano. L’errore umano è sostituibile; quello di sistema è eterno. Gilliam lo sapeva e lo mostrava senza prediche, facendo del dettaglio l’unità minima dell’orrore: una vite che traballa, un cartellino fuori posto, una pratica che slitta e diventa una vita che deraglia.

Un’altra ragione per cui Brazil non invecchia è la forma. Quel “passato del futuro” (tubi come budella, scrivanie-schermo, posta pneumatica, ascensori che scricchiolano) ha fatto scuola. Lo ritroviamo nei mondi arrugginiti di Jeunet e Caro, nelle subway dell’immaginario cyberpunk europeo, nei cubi grigi di tanta fantascienza da ufficio. A pensarci bene l’erede di Brazil oggi è senza dubbio Scissione con il totalitarismo degli uffici di Lumon, che non è altro che una distopia travestita da open space, dove i corridoi bianchi e infiniti sono l’inconscio aziendale che inghiotte gli “innie”. Il tutto sospeso in quell’estetica del retro-futuro burocratico, dove passato e il futuro (appunto) collassano in un presente sospeso, fuori dalla storia, e il sogno non libera, ma mostra quanto sia stretto il recinto, con la stessa ironia surreale e lo stesso orrore.

E quindi sì, come si dice, Brazil ha camminato per permettere a Scissione di correre. Ma pochi hanno avuto, come lui, come Gilliam, il coraggio del barocco: la cornice tagliata come un fumetto, la macchina da presa che si diverte, la scenografia che invade i personaggi come una pianta rampicante. C’è Robert De Niro che si concede un’apparizione lesta e memorabile, c’è Michael Palin che firma il suo ruolo più inquietante, e poi Bob Hoskins e Derrick O’Connor in coppia da gangster dell’assistenza tecnica. È un film che ti lascia addosso la sensazione di aver camminato dentro un ingranaggio. Riguardarlo oggi significa anche perdonare i suoi eccessi, i graffi, qualche azione che si allunga o si ripete come nei sogni di chi non vuole svegliarsi. Ma i film-mondo funzionano così: ti ci perdi dentro e quando esci ti porti via un odore. A immaginare quello di Brazil, sarebbe un misto di ozono, inchiostro e disinfettante: la puzza degli uffici che credono di essere eterni. Gilliam, sabotatore con la risata in tasca, non fa sociologia: fa cinema. E nel cinema i moduli diventano mostri, i condotti diventano serpi, le sedute di chirurgia plastica diventano rituali per tenere lontana la morte.

Robert De Niro in ‘Brazil’. Foto: 20th Century Fox

E poi c’è Jill: Kim Greist la interpreta senza divismo, quasi un miraggio più che un personaggio. Camionista, cittadina riluttante, grana nell’ingranaggio. Non è una musa: è una possibilità. In un film in cui tutti si adeguano, lei è il rumore. La storia con Sam è il cuore segreto di Brazil, la rom-com che non s’ha da fare, perché non è una storia d’amore, è una storia di riconoscimento: “Io ti ho sognata”, “Io non ho tempo per i tuoi sogni”. La distanza tra quelle due frasi è il film intero. Jonathan Pryce regge il tutto con una leggerezza triste, un Chaplin capitato nel reparto errato.

Quarant’anni dopo, Brazil continua a dirci che il problema non è (solo) la dittatura dichiarata, ma la somma di piccole obbedienze quotidiane: il “si è sempre fatto così”, il “serve il modulo 27B/6”, il “la pratica è in lavorazione”. Non è un proclama, è una constatazione. E se ridiamo è solo perché Gilliam ci concede il lusso della commedia. «Puoi anche arrabbiarti, ma il modo migliore per affrontare quello che non ti piace è ridere. O almeno, io la vedo così», mi ha detto una volta in una cover story. Quando la risata finisce però, resta quel finale che non racconteremo a chi non l’ha visto, ma che si sente nelle ossa come una corrente d’aria fredda.

Jonathan Pryce e Charles McKeown in ‘Brazil’. Foto: 20th Century Fox

Forse è per questo che Brazil è ancora sul prezzassimo: perché parla del nostro presente come se fosse già passato, e del nostro passato come se non fosse mai finito. È un film sul desiderio di evadere e sull’implacabile arte di riportarci alla scrivania. È l’inno nazionale di tutti i Sam Lowry che hanno avuto un sogno tra le otto e le nove e poi hanno timbrato il cartellino alle nove e cinque. Se la realtà è “solo una condizione della mente”, allora il cinema serve (ancora) a riconfigurare l’aria che respiriamo.