Notti pontine, d’autore, dove la musica corre veloce, quasi come quelle macchine che, invece, dovrebbero andare piano. Veloce sulle tastiere di un piano o lungo le corde di una chitarra, l’importante è che le dita sapienti siano quelle di un autore con la “A” maiuscola, di quelli che non si trovano per caso ad un pianobar, che hanno costruito la propria storia attraverso lo scrivere. Quelle parole che hanno reso famose celebrità a 33 e 45 giri della nostra musica, che non ci sono più e che hanno fatto la storia.
Lui, Alberto Laurenti, figlio di un pianobar che non esiste più e di una musica che, fortunatamente, esiste ancora, conosce la nostra terra come pochi: l’apprezza, la ama, ci vive accanto, la prende sotto braccio come si fa con le signore e insieme, come in un grande amore che fa tanti giri, ma che alla fine ritorna alle origini, la dispensa ai posteri con serate d’autore come quella consumata, non prima del nostro incontro, nello spazio artistico di “Aria”.
Vogliamo partire da questa terra pontina che tu ami tanto, dove hai certificato meravigliose serate, raccontando la tua musica e quell’essere artista come pochi.
“Il mio rapporto con questa meravigliosa terra va oltre la musica”.
Vogliamo raccontarla meglio?
“Nel 1988 uscivo da un gravissimo incidente stradale che mi aveva lasciato claudicante ad una gamba. Accettai, comunque, di venire a fare la stagione estiva alla ‘Bussola’ di San Felice Circeo. Una sera, non so come, l’elettricità positiva finì per giovare alla mia gamba e nel giro di pochi giorni ricominciai a camminare normalmente”.
Una sorta di legame esoterico.
“Senza ombra di dubbio. Il Circeo è qualcosa di molto importante per me. In quell’estate del 1988, arrivai con le stampelle e andai via senza. Un fatto che mi ha legato profondamente a quel posto. Credo che sia la prima volta che racconto questa storia, sono felice di farlo con voi”.
Gli anni ottanta e novanta, da quelle parti, erano però un’altra cosa. C’era il piacere di andare nei locali, di abbracciare le persone. Oggi cosa succede al Circeo?
“Quello che succede un po’ ovunque. Una volta andavo in Sardegna e la mia stagione durava 90 giorni. Oggi, per stare lì 4-5 giorni, non ci vado più”.
Bussola, Valentino Notte, Nautilus, La Stiva, Chez Ninà, Bounty e così via…
“In quegli anni c’erano 10 locali aperti contemporaneamente, tutti pieni di bella gente. Oggi la crisi ha colpito tutti, anche e soprattutto il genere umano. E’ cambiato il modo di stare al mondo e di divertirsi. Sarebbe ingeneroso pensare ad una crisi locale, sta succedendo a tutti e il ricambio generazionale non aiuta di certo. Ecco perché abbiamo un ricordo meraviglioso di quegli anni 80 e 90”.
Dove la gente sapeva divertirsi.
“C’era anche un altro tipo di portafoglio. La gente spendeva perché aveva la possibilità di farlo, ma lo faceva bene. Al Circeo, come all’Argentario o in Sardegna”.
Non ci resta, dunque, che aggrapparci ai ricordi.
“Purtroppo è così. Adesso c’è gente sufficiente per riempire uno o due locali al massimo, ma solo il weekend. Vige la regola del ‘mordi e fuggi’”.
Filippo Maria Lazzari detto “Il Grande”, il primo Sergio Cammariere, Federico Palazzolo, tanto per citare nomi illustri che insieme a te hanno fatto storia al Circeo.
“Una volta i locali si preoccupavano di chiamare per tempo i pianisti più famosi della capitale per averli al Circeo. C’era un altro tipo di cultura. Il piano bar non era un qualcosa di improvvisato, era arte pura che ti accompagnava sino all’alba, cullandoti con la musica di chi sapeva farla, e bene”.
Renato Zero, Gabriella Ferri, Franco Califano. Solo a nominarli, vengono i brividi.
“Loro hanno scelto me ed è stato meraviglioso. Ho un ‘hard disk’ artistico strano, perché non sono cresciuto rivolto, per dire una frase fatta, ai Beatles o ai Rolling Stones. L’ho fatto rivolgendo la mia cultura musicale all’ottocento napoletano, alla romanza, al sud del mondo e questa cosa è piaciuta moltissimo sia a Califano, che a Gabriella Ferri, che hanno scelto di fare tanti dischi con me, complice questa mia trasversale realtà musicale, non legata a quello stile anglosassone, ma alle radici della nostra cultura ottocentesca”.
Il ricordo più bello legato ad ognuno di loro?
“La risposta me la sarei dovuta preparare per tempo, così su due piedi è difficile dirlo”.
Gabriella Ferri, però, ha finito un po’ per stravolgere il tuo percorso.
“Mi ha costretto in modo feroce a fare dei cambiamenti radicali nelle mie scelte musicali, perché voleva che fossero quelle che piacevano a lei. Mi ha fatto acquistare strumenti particolari, voleva che il suono fosse quello del suo vestito migliore”.
E Califano?
“Vent’anni insieme, i ricordi personali sono tanti. Vi dico una cosa, legando il mio racconto ad un personaggio della Roma che abbiamo amato tutti: Carlo Mazzone. Con lui si facevano i miracoli, poi una volta in Champions, arrivava qualcun’altro. Io sono rimasto, perché Franco mi ha messo, in un momento delicato della mia vita, di fronte ad un bivio: ‘continui a scrivere e resti dentro con me’: sono rimasto il suo Mazzone ed ho scritto ‘Un tempo piccolo’ (quattro dischi di platino nella versione cantata da Tiromancino, ndr). La canzone più importante per me, ma anche per lui”.
Torniamo al Circeo: il ricordo più bello?
“Agosto del 1988 di cui vi ho già parlato. Ricordo che passavo le giornate a letto, avevo una casetta proprio di fronte al ‘Bounty’. Guardavo il mare e lui guardava me. Avevo la gamba destra messa proprio male: provavo ad usarla, mi sforzavo di farlo, ma era morta. Piano piano, però, mi accorsi, muovendo l’alluce, che stava rinascendo: con lei, sono rinato anche io”.
Gianluigi Superti e la “Stiva”?
“Ha avuto il coraggio, e lo ha tutt’ora, di mettermi un palco importante sulla spiaggia, mi ha fatto sentire come quei fuoriclasse brasiliani ai quali non devi dire nulla, ma soltanto supportarli nel loro essere creativi. All’improvviso mi sono trovato a vivere sensazioni e momenti meravigliosi con una gran grande orchestra. Lui ha avuto la bravura, il fiuto, chiamatelo come volete, di scommettere su me e su ‘Rumba de Mar’. Ci ha visto lungo, come imprenditore è stato coraggioso”.
Senza dimenticare la piazzetta di San Felice Circeo.
“No, assolutamente. Altro posto incastonato nei miei ricordi a mo’ di diamante prezioso. Un salotto a cielo aperto, indimenticabile”.
Cos’è oggi per te la musica, lo scrivere canzoni?
“E’ tutto. Ci provo ad andare in vacanza, a staccare la spina, ma al secondo giorno, eccomi di nuovo a Roma. E’ più forte di me, non sono fatto per stare in vacanza”.
Magari perché la musica è molto più che un semplice lavoro.
“Non riesco a stare fermo, a farmi un bagno in santa pace, questo perché la musica, come dite voi, è molto più che un semplice lavoro. Una sorta di vocazione. Mi ritengo un privilegiato nel dispensare sorrisi ed allegria a chi mi vede e ascolta. L’essere privilegiato non mi fa sentire la fatica. Mi ritrovo a fare 20 serate al mese, perché è una mia esigenza personale”.
E quindi?
“Finché Dio vorrà, finché la gente vorrà, non credo di avere i presupposti per diminuire i miei ritmi, cioè la musica per me e tutto ed è un ragionamento assolutamente non legato ai soldi, ma ad un’esigenza personale”.
Come afferma da sempre Gino Paoli, è ancora un’arte povera, ma allo stesso tempo meravigliosa?
“Più povera di una volta, perché adesso non è come negli anni 90, però è un’arte meravigliosa. Di recente sono stato in Albania, dove ho suonato con grandissimi musicisti. La gente, che a fine concerto, ci incontrava, salutava, abbracciava, credetemi non ha prezzo. Il nostro, quello che abbiamo, è un dono prezioso. Quello di far sorridere e far stare bene le persone. Ti senti un privilegiato nel poter avere la certezza che puoi regalare qualcosa di diverso alle persone che vengono a sentirti”.
Abbiamo parlato di Franco Califano e Gabriella Ferri che, purtroppo, ci hanno lasciato troppo presto. Sulla tua strada, però, hai trovato uno dei più grandi in assoluto: Renato Zero. Ti è riconoscente per “Nel fondo di un amore” ?
“Siamo molto amici al punto che ogni volta che abbiamo l’occasione di incontrarci, lui mi dice sempre la stessa cosa… ‘non ti fai mai sentire, ma perchè non mi chiami?’. E’ vero, non lo faccio, ma non voglio passare per quello che non sono e non sarò mai: quello che chiede, o che magari baratta un saluto o una telefonata, con qualcosa che possa tornargli utile”.
C’è stato un momento della sua vita, però, nel quale ti ha voluto al suo fianco.
“Spesso mi fa sentire i suoi dischi prima che escano. Mi fa dire qual è secondo me il singolo migliore. Nutre una grande fiducia in me. Io, però non sono invadente e non lo chiamo mai”.
Il rapporto con lui resta ed è ben consolidato.
“Ci mancherebbe, assolutamente sì. E’ il più teatrale degli artisti musicali, un qualcosa che lo rende assolutamente unico. Ogni suo album, ormai, è un musical, non più un prodotto discografico. Canta come e meglio di quando aveva quarant’anni e ne ha 74. Ha una voce della Madonna: è semplicemente pazzesco”.
Vogliamo parlare del tuo amico Silvestro Longo (autore di canzoni, scritte per Mina, Gabriella Ferri, Bruno Martino e cento altri, ndr), altro figlio adottivo di un Circeo che non c’è più?
“Va sempre in vacanza in un paesino vicino al lago di Bolsena: provate a indovinare chi lo ha portato lì e chi, il prossimo 2 settembre, andrà a riprenderlo. Siamo rimasti molto amici. E’ l’autore più interconnesso alla mia vita personale, perché a differenza di altri, ha vissuto anche le mie sofferenze personali, cercando sempre di assecondarmi, di sposarle per farmi contento. Abbiamo litigato tantissime volte sulle cose che abbiamo fatto insieme, perché siamo veramente amici. Un autore che ha avuto meno successo di quanto meritasse. Quando ha venduto la casa al Circeo, è stato male, in depressione per un anno. Del resto, come altri, aveva vissuto le stagioni più belle”.
Se guardi avanti, cosa vedi?
“Una carriera pronta a trasformarsi in progetti nuovi che sono già in essere, oltre al fatto che finché potro, non perderò mai di vista la verità del concerto ‘on the road’ tutte le sere, che è la cosa che mi serve di più per creare. Ho dei progetti molto belli e finché la salute mi sosterrà, godrete della mia musica”.
Se mi dovessi dire una cosa che non hai mai detto a nessuno e che vuoi regalare a noi?
“Non c’è serata nella quale non abbia paura di deludere me stesso e il mio pubblico. Non c’è serata nella quale non mi emozioni come se fosse la prima. Questa mia paura della performance tutte le sere, nonostante l’età e il fatto che vado in scena 20 volte al mese, è adrenalina pura, perché credo che il giorno che non avrò più paura, sarà quello in cui non avrò più voglia di fare questo mestiere”.
Il Circeo, in conclusione, è un po’ come la strofa di una delle celebri canzoni di Antonello Venditti: “certi amori non finiscono, fanno dei giri immensi e poi ritornano”.
“Assolutamente sì, credo sia il posto che sento più vicino a me, al pari di Capri. Al Circeo, però, c’è stata questa specie di rinascita che ogni mio pensiero associa a questa terra. Vedo sbucare nella mia mente il monte Circeo. Non è un caso che ogni qualvolta devo venire da quelle parti, faccio la ‘Litoranea’. Magari allungo, ma è un tuffo nei ricordi che per me hanno un significato. Finché posso, faccio questa strada, voglio veder nascere la montagna lentamente. Entrare nel ventre della mamma: tanta roba”.