prete

Nel suo precedente libro – Un autunno di agosto – Agnese Pini aveva già cominciato a scavare nel proprio passato. Ma in un passato lontano, per lei quasi remoto: quello della strage nazista di San Terenzo Monti (soltanto una di quella bestiale catena di morte che insanguinò molti luoghi toccati dalla ritirata dei tedeschi dall’Italia) in cui la bisnonna Mira/Palmira era stata una delle 160 vittime.

Agnese aveva rimandato per tre anni l’invito di un collega giornalista, originario del paese, a visitare quel posto dove non era mai stata. Una sorta di ripulsa a fare i conti con una storia dolorosa che, per quanto lontana nel tempo, la riguardava e della quale tante volte aveva sentito raccontare in famiglia. «Una vicenda – ha detto in un’intervista – che mi è stata raccontata più volte da mia nonna, da mia madre e da mia zia. È come se mi fossi voluta mettere alla prova con quel libro, per capire se sarei stata in grado di scrivere La verità è un fuoco».

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Si tratta di un’altra storia familiare, che la interpella molto più da vicino e la coinvolge: scopre, all’età di tredici anni, che suo padre è stato un prete. Nel fondo di un cassetto dell’armadio dei genitori trova un album di foto sulla cui copertina c’è scritto, su un nastro scuro con caratteri bianchi in rilievo: don Pini.

Non un parente prete, ma suo padre. «Non ho mai più rivisto quell’album, in vita mia. Mai più, dopo quel pomeriggio. Eppure: non c’è un’immagine che io non ricordi con precisione intatta». Foto del giovane seminarista, dello studente di teologia ventenne, foto del giovane prete con i paramenti sacri delle celebrazioni, foto di una gita con i parrocchiani in Piazza San Pietro.

All’età di trentanove anni, lei giornalista – direttore del Quotidiano Nazionale, che riunisce le tre testate de Il Giorno, Il Resto del Carlino e La Nazione e adesso anche presidente della casa editrice Longanesi – che ben conosce il mestiere di fare domande e raccontare storie di vita, sente di non aver alternative rispetto al necessario, inevitabile racconto di questa storia. Quella di lei e di suo padre, del quale ha scoperto che era un prete. Scoperta faticosa, che genera la sua ribellione di adolescente (ma tale da non accompagnarla più): «Non volevo essere la figlia del prete. Non volevo quel segreto anche perché sentivo – sapevo – che non avrei mai potuto condividerlo. Era troppo sproporzionato per la mia età, per i miei orizzonti, per la mai capacità di comprensione».

Subito la fatica del confronto con i genitori. Prima alla mamma, che dice al marito: «Agnese deve chiederti una cosa». E poi di fronte al padre: «Tirai fuori le parole che oggi si fermano sul filo delle mie labbra, la voce incatenata e impotente: “Papà, è vero che eri un prete?”. E vidi il suo viso spezzarsi, e il mio viso si spezzò con il suo: vidi il viso di un padre colpevole e immediatamente sentii quella colpa su di me, come fosse la mia.»

Non subito nel racconto, ma parecchie pagine più avanti, Agnese racconta la risposta del padre: «La voce gli uscì rauca dalla bocca: “Sì, ero un prete. Ma poi ho conosciuto tua madre e ho lasciato la Chiesa”. Nient’altro? Nient’altro».

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All’età di sedici anni, durante l’estate dopo la seconda liceo, Agnese vive una tappa di un ininterrotto percorso sulle tracce del padre: catalogare i libri della biblioteca del seminario di Sarzana, dove lui aveva studiato. Gli fa da guida un prete anziano amico di famiglia: ha imparato a conoscerlo come «zio Enzo», che la accoglie e l’accompagna con grande disponibilità.

Incontra un altro prete ancor più anziano, don Crovara, per il quale dirà «di aver provato un affetto sincero». Agnese, che sta catalogando un lascito del sacerdote alla biblioteca, lo trova cordiale e premuroso, era stato insegnante di suo padre al liceo e le racconta la vita dei seminaristi e che suo padre era bravo in latino, e che «era un buon prete».

Una volta, nelle sue giornate in biblioteca, c’è un intenso dialogo con don Crovara a partire dal racconto evangelico dell’incontro di Gesù con l’uomo ricco a cui viene chiesto di lasciare tutto.

Ma incrocia anche don Claudio, che era stato compagno di classe del padre e a cui viene presentata come «la figlia del Pini»; la colpisce il tono con cui le si rivolge, «mi lasciò dentro una sensazione vaga e opprimente, di imbarazzo e perfino, in una certa misura, di rabbia… il tono di chi non è solo curioso, ma anche malizioso».

Incontri come questo alimentano il lei un senso di vergogna, anche se, a un certo punto, si vergognerà di essersi vergognata. Vergogna attribuita anche al padre, come possibile causa dell’occultamento ai figli della sua vicenda.

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Nel libro ritorna più volte e intensamente il senso del legame di suo padre con la Chiesa, come in questo passaggio:

«Era vergogna o era obbedienza? La Chiesa vuole obbedienza, i preti sono obbedienti. E tu non hai mai smesso di essere prete: i sacramenti non si sciolgono mai, nessun uomo può dissolverli. Possono umiliarti e tacitarti, cacciarti e dimenticarsi di te, ma non toglierti ciò che sei».

Per mettere mano alla scrittura del libro e soprattutto per metterne a conoscenza il padre, ritiene necessario rivolgersi a uno psicanalista per fare ordine nei propri pensieri, nei sentimenti che la investono e sconvolgono, in quello che sa e in quello che vorrebbe sapere di suo padre e quindi nella loro relazione: un insieme turbinoso di cose che vive come «un segreto inconfessabile, o una colpa insostenibile… pensai che lo psicanalista è come un prete, e se i vicari di Cristo non avevano saputo o voluto aiutarmi, forse avrebbe saputo farlo un vicario di Freud».

Perché qualche pagina prima aveva fatto cenno a due incontri, sui quali ritornerà quasi al termine del libro: con un prete di Milano ritenuto «particolarmente bendisposto dell’ascolto del prossimo suo» e poi con «un vescovo considerato di grande prestigio. Entrambe le volte e dopo i miei fiumi di lacrime, tornai a casa con il cuore freddo e tremante e la testa vuota».

I colloqui con lo psicanalista – leitmotiv sottostante all’intero racconto – la sostengono nella lotta interiore che affronta, nel cammino per superare lo sconcerto, il disagio, i numerosi silenzi tra lei e il padre. In punta di piedi e con il cuore spesso in tumulto, Agnese ripercorre altre tappe attraverso cui ricostruisce la storia d’amore dei suoi genitori, la frattura con la Chiesa che non è abbandono della fede, la celebrazione del matrimonio prima civile e poi di quello religioso celebrato solo dopo parecchi anni, per una sorta di ostinazione ecclesiastica ingiustificatamente punitiva (su cui torneremo dopo).

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La famiglia Pini va ogni domenica in parrocchia, i ragazzi frequentano il catechismo (Agnese ha un fratello e una sorella adottativi) e dietro di loro c’è la madre nei primi banchi della chiesa. Il padre invece è in piedi «nelle panche in fondo, quelle accanto al portale, quelle dietro l’ultima colonna».

Parola ricorrente nel racconto è «vocazione», compare quasi subito e ritorna infinite volte: a partire dalla riflessione sulle diverse scelte di vita del padre, e anche per le sensazioni suscitate in lei dall’ambiente del seminario e dai preti che vi incontra. Con lo sviluppo di una ricerca personale, intima sul nesso tra fede e vocazione.

Anche qui Agnese Pini fa dono di pagine intense e profonde, come questa in cui interagisce con lo psicanalista:

«Se cercare è credere, allora sì, sono credente. La fede è una ricerca, la vocazione è una ricerca… in quel gioco di fughe e di specchi, di allontanamenti e di ritorni di cui è fatta l’esistenza umana, sta l’altrove che ci porta alla fede, perché lì sta il segreto del senso che possiamo attribuire alla nostra esistenza, al nostro essere vivi. Nascere, fuggire, cercare e poi, alla fine, tornare. Solo chi cerca può credere, solo chi crede può tornare, solo chi torna può avere fede, perché tornare è un atto di fede. Dio è tornare».

In un colloquio con lo psicanalista, lei afferma: «Non riesco a pensare che la vocazione possa essere qualcosa di tanto diverso dall’amore».

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Una delle tappe di avvicinamento alla storia del padre è la scelta dell’università. Giovane parroco, don Pini era studente alla facoltà di Lettere all’Università di Pisa, dove Agnese si laureerà brillantemente in lettere moderne: «la stessa facoltà, nella stessa città, in cui si conobbero i miei genitori, esattamente trent’anni prima… sì, l’ho scelta anche per i miei genitori, l’ho scelta anche pensando a loro». Anni intensi di studi e di amicizie, di dichiarata distanza dalla famiglia.

Ma è proprio lì, in una strada o una piazza della Pisa universitaria che i suoi genitori si incontravano:

«Che cosa vi siete detti, chi ha sorriso per primo a chi?… O invece l’amore è arrivato in silenzio, senza farsi notare, nascosto in una segreta felicità che vi palpitava nel petto, una felicità senza nome e senza perché…».

Iniziano a frequentarsi e studiano fianco a fianco, per le rispettive ricerche, nella biblioteca del Seminario di Sarzana.

«Si erano innamorati in un giorno d’autunno, preparando gli esami e la tesi di laurea, tutto quel tempo passato insieme, nella biblioteca del seminario di Sarzana, nelle aule dell’Università di Pisa. Due studenti, fianco a fianco. Lei ragazza, lui prete. Si separarono in un giorno d’inverno, dopo il Natale del 1975».

A quel punto, per un anno eviteranno di incontrarsi. Agnese medita anche su quella scelta e poi sul nuovo incontro tra i suoi genitori e sulla decisione di «riconoscere l’amore». E così

«lei, alla fine, tornò da lui, perché anche lei poteva lasciare tutto per lui… e si dissero che non avrebbero più avuto paura. E non fu coraggio, non fu trasgressione, non fu volontà, non fu forza, la loro. Le scelte d’amore rispondono solo alla fede e allo spirito, e non hanno parole per poter essere raccontate…».

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Cose della vita del padre che la figlia medita, ripercorre, collega in una sofferta e intensa sosta a Vezzano, nella chiesa di cui suo padre, negli stessi anni in cui studiava lettere a Pisa, era parroco.

«Pensai a mio padre, in quella chiesa, sotto quel crocifisso… Pensai quante volte doveva averlo guardato e pregato, a quante volte doveva averlo invocato. Pensai ai suoi dubbi, alla sua sofferenza, al suo senso di colpa, alla sua paura e al suo rimpianto. Pensai alla fatica, alle lacrime, alla tenerezza che io, con tutta me stessa, provavo per lui. Per mio padre».

Parole colme di affetto e anche di fede, di quella che Agnese sa esser stata ed essere ancora nella vita di suo padre (e in qualche misura, se posso permettermi, nella sua).

Gli anni vissuti in parrocchia a Vezzano erano quelli del dopo Concilio. A una domanda dello psicanalista Agnese afferma che nel rinnovamento conciliare il padre «ci credeva, moltissimo». Penso che avesse sperato che la Chiesa potesse cambiare molto più di quanto non sia poi effettivamente cambiata. E penso che questa speranza comprendesse anche il celibato. Tempi e scelte che Agnese ripercorre anche pensando a un incontro tra la sua famiglia e quella di un altro prete che ha lasciato, si è sposato ed è rimasto amico del padre, don Currarino.

Riguardo all’altra coppia – che vive in modo meno lacerante il rapporto con la Chiesa – si domanda:

«Furono più felici dei miei genitori? Riuscirono, rivendicando la loro scelta, a renderla meno dolorosa, meno violenta rispetto al giudizio degli altri? Della Chiesa, dei genitori, degli amici e non più amici. Dei figli, dei colleghi, dei parrocchiani e degli ex parrocchiani. Non so dirlo».

I due amici ricordano il teologo genovese don Balletto, che li aveva aiutati negli anni precedenti al Concilio ad aprirsi alle nuove prospettive soprattutto dei teologi francesi, in particolare Congar (un suo libro Agnese lo scopre in casa, in camera del fratello):

«Una Chiesa in cui gli ultimi potessero essere primi, perché a loro, e a loro più di chiunque altro, erano rivolti gli sforzi, le speranze e le idee, la fede e la preghiera, l’impegno e la misericordia, la giustizia e il bene. In questo fermento… mio padre completò gli studi necessari per il sacerdozio».

E poi si domanda: «Furono anni appassionati e complicati, vero, padre mio? Gli anni in cui il mondo cambiava e la Chiesa cercava di capire fino a che punto avrebbe potuto, o dovuto, cambiare insieme al mondo. Chi sognò troppo, chi troppo sperò, restò deluso. E tu, restasti deluso?».

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La lettura del libro, per me prete da ormai cinquantun anni, è stata motivo di riflessioni intime, occasione di ripercorrere la storia della mia vocazione e quella di altri amici preti, il mio impegno (non spetta a me dire quanto e come mantenuto) di essere fedele, il mio modo di stare nella Chiesa. Anche di conoscere, e talvolta accompagnare, altre vicende di amore.

Un grazie autentico, non formale, a una giornalista che «sa scrivere», sa raccontare, sa legare il lettore alla pagina (cosa già avvertita nel precedente «Un autunno d’agosto», ma qui ancor più assaporata e gustata).

Sono stato aiutato e, in qualche modo costretto, a riflettere sulla mia vocazione, sul mistero di quella che Arturo Paoli (cito a memoria) definiva «l’entrata violenta e totale del Signore in una persona». Aiutato e costretto a interrogarmi sulla mia vocazione, sui tanti possibili modi di esserle infedeli; oppure rispettosi di una regola sentita come inevitabile… col rischio di sorvolare sulla necessità/possibilità di fare i conti, prima o poi, con la scoperta della donna, dell’amore, di tutto un mondo da cui la Chiesa ha tante volte e in tanti modi cercato di «preservare».

Preservare è il verbo che ricorre in abbondanza nei testi liturgici della festa dell’Immacolata: l’amore tra un uomo e una donna troppe spesso visto come occasione di peccato, anziché di cammino verso una pienezza che risale al progetto del Creatore. Come se il peccato fosse soprattutto lì…

In una Chiesa governata da soli uomini e tutti celibi, che non si intendono – o non dovrebbero intendersi! – dell’amore umano, tra un uomo e una donna. E che comunque scrivono libri su libri e insegnano da cattedre prestigiose, ma spesso per parlare di com’è, di come dovrebbe essere l’amore degli altri. Nonostante che affermiamo, preparando i fidanzati al matrimonio, che «i ministri del matrimonio sono gli sposi». Ma poi quanta fatica quando si tratta di restituire il matrimonio, la teologia del matrimonio, l’etica cristiana del matrimonio ai laici cristiani, agli sposi cristiani!

Penso che sia necessario qualche passo deciso in questa direzione, tanto più che ormai ci sono e crescono – tra i cristiani sposati – fior di uomini e donne che ne sanno di teologia più di tanti preti! E forse, a partire da chi sta vivendo l’amore coniugale senza che sia ritenuto un tradimento o un ripiego, anche l’opinione e il giudizio sul prete che si sposa cambierebbe…

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Veniamo al libro, alle pagine più sofferte, alle domande che Agnese Pini – e come e più di lei suo padre e sua madre – hanno fatto fatica a porre alla Chiesa, oppure senza trovare convincenti ed empatiche risposte.

C’è una terminologia, ufficialmente bandita (e il racconto ne dà atto), per quelli che a un certo punto hanno lasciato. «Spretati». Ma Agnese e suo padre Adriano lo sanno: si è preti per sempre.

Poi alcuni scoprono un altro amore, ed è per una regola della Chiesa (di una delle Chiese) e non del Vangelo che le due strade e i due amori non possono convivere. Nel libro ci sono domande che tutti quelli che abbiamo scelto di essere «celibi per il Regno dei cieli» faremmo bene a porci, inclusa la provocazione (anche qui mi affido ad Arturo Paoli) se per qualcuno l’obbligo del celibato non possa esser vissuto come tassa da pagare per entrare in un club di privilegiati.

Dicevo già che parola ricorrente nel libro è vocazione, intesa come scelta di amore, per amore. Allo psicanalista che la interroga sulla vocazione, Agnese risponde di figurarsela «simile alla libertà: tutte le idee in cui crediamo e tutte le idee che amiamo sono simili alla libertà».

La percezione del legame tra amore, fede e libertà mi ha fatto pensare a don Milani, quando afferma che il fatto di diventare prete l’ha vissuta come una scelta di libertà, sentendosi particolarmente libero per essersi preso la «libertà di celebrare Messa».

Fede, amore e libertà ritornano più volte in queste pagine, unite a un altro concetto che lo studente di teologia ha appreso nel suo significato profondo da Bernard Häring, di cui è stato allievo: «Prima degli ordini e delle regole viene la coscienza… più importante di ogni regola… quando sa vedere il bene… a cui ci si allena per tutta la vita». Forse è proprio la libertà, nel suo valore profondo, uno dei vocaboli più assenti nel nostro vissuto di preti, di cristiani.

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La partecipazione a un’udienza papale ai giornalisti suscita una domanda sulla Chiesa e il potere, su Dio e il potere. L’imponenza e la magnificenza degli ambienti da attraversare per giungere al luogo dell’udienza Agnese li vive come «la rappresentazione di che cosa sia il vero potere».

E la rimandano al racconto di quando il padre si recò lì vicino, al palazzo dell’ex Sant’Uffizio, fiducioso di ottenere la dispensa per il matrimonio. Un incontro che non andò bene: «il funzionario lo aveva trattato con sbrigativa freddezza. Gli aveva posto tre domande; se ad almeno una avesse risposto sì, avrebbe avuto più possibilità di ottenere rapidamente la dispensa. Mio padre rispose no a tutte e tre le domande. (…) Gli chiesero se mia madre fosse incinta, o se avesse già avuto figli da lui… se si fossero sposati civilmente, fatto che avrebbe certificato l’irregolarità, per la Chiesa… se fosse stato per qualche motivo condizionato, o costretto, a farsi prete. Mio padre avrebbe potuto risponder di sì, avrebbe potuto dire una bugia: sarebbe stata sufficiente ad accorciare gli anni e le sofferenze, a soffocare le delusioni, a limitare il dolore».

L’attesa della dispensa sarebbe durata dodici anni. Tutte queste cose vengono in mente ad Agnese mentre sale gli scaloni vaticani, dove avverte di aver «visto il potere senza riuscire a vedere Dio».

A me, giovane di Azione Cattolica al tempo del Vaticano II (prima di entrare in seminario), ha colpito ed emozionato la parte del racconto di che cosa era stato il Concilio per i giovani preti della generazione di don Pini, e mi viene da fare un raffronto su che possa rappresentare quel Concilio per i giovani preti di oggi, per i seminaristi di oggi: una delle tante cose da studiare a scuola (sperando che abbiano come insegnanti dei teologi non nostalgici)?

Ci sono stati tempi di passione e di gioia perché la Messa cambiava, gli altari venivano girati verso il popolo, la Parola era proclamata nella propria lingua, ragazzi e ragazze non facevano più la formazione in percorsi separati… Oggi c’è il rischio di vivere queste e altre cose come una normalità (spero sia assente la nostalgia dei bei tempi in cui «qual falange di Cristo redentore la gioventù cattolica in cammino»).

Il racconto attesta come suo padre e i suoi compagni di seminario vissero con speranza «gli anni di don Milani e padre Balducci. Gli anni dei preti operai, gli anni delle chiese di comunità, delle aperture e delle illusioni».

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Tanti altri pensieri e ricordi evoca il libro e dobbiamo davvero esser grati all’autrice. Mi sento però anche di attestare come nei confronti dei preti che hanno lasciato il ministero siano cresciute nella Chiesa, sia a livello di fedeli che di pastori, l’accoglienza, la considerazione e, in vari casi, la valorizzazione.

Pur rimanendo zone d’ombra, oso pensare che siano assai diminuiti, anche se non scomparsi, gli atteggiamenti che sono stati motivo di sofferenza per Agnese Pini e per suo padre. Voglio sperare che ci siano altri preti diversi dal reverendo milanese che riduce la storia della scelta per amore del padre di Agnese alla domanda se la madre fosse o no incinta quando il padre lasciò.

Inoltre, so per certo di vescovi che, nei confronti di loro preti che hanno lasciato, hanno assunto atteggiamenti assai diversi da quello che promise ma non mantenne una visita ai due sposi ormai anziani, e si limitò a mandare loro un rosario di plastica benedetto dal papa.

So di qualche vescovo che, invece, ha benedetto le nozze di suoi preti che si sposarono. Anche il fatto che diversi di loro abbiano ricevuto dal rispettivo vescovo l’incarico di insegnare religione cattolica nelle scuole come non interpretarlo come un atto di fiducia? Guardando avanti altri spazi si apriranno per valorizzare, con le opportune attenzioni, la sensibilità e le competenze di coloro che in ogni caso «restano preti».

Con queste considerazioni non intendo rimediare al dato di fatto che uomini di Chiesa, e in qualche misura la Chiesa nel suo insieme, abbiano chiuso le braccia e il cuore verso dei figli che hanno percorso una strada diversa da quella in precedenza tracciata.

Quello che mi resta, della lettura del libro, è il bisogno di accogliere e non giudicare, di accogliere le sofferenze e rispettare la storia di ogni persona e di sapervi cogliere «le cose buone o riducibili al bene», come amava dire Giovanni XXIII.

Agnese Pini, La verità è un fuoco, Garzanti, Milano 2025, pp. 336, € 19,00, EAN: 9788811016434.

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