di
Gaia Piccardi
Nel settembre 2015 Flavia Pennetta ha vinto gli Us Open, unica italiana, nel derby contro l’amica Roberta Vinci: «Bevemmo un caffè prima della finale, Becker non ci credeva. La coppa? Ce l’ha papà. Fabio? L’ho sempre punzecchiato per ballare»
Per quanto tempo è per sempre?».
«A volte, solo un secondo».
(Alice a Bianconiglio).
Dieci anni sono volati. Sergio Mattarella veniva eletto presidente della Repubblica al quarto scrutinio, la Nasa dichiarava che c’è acqua su Marte, il Volo vinceva il Festival di Sanremo, Samantha Cristoforetti tornava sulla Terra dopo 200 giorni nello Spazio e Flavia Pennetta da Brindisi, Italy, ex numero 6 della classifica mondiale del tennis, classe 1982, decollava verso il suo personalissimo iperuranio spiccando il volo da un rettangolo di cemento blu piazzato nel Queens, il più grande dei distretti di New York, la città delle mille luci e di una sola stella italiana in 138 anni di storia dell’Open Usa al femminile, il quarto degli Slam stagionali. Il 12 settembre 2015 Pennetta-Vinci, il derby azzurro in finale, apparecchiava a Flavia l’uscita di scena che nemmeno Roger Federer si è potuto permettere. Alzare la coppa e dire: «Mi ritiro, ciao». Il coraggio di lasciare in cima alla montagna, godendosi il panorama.
Ricorda, Pennetta?
«Come fosse ieri».
Ci parliamo da New York, dove è tornata per il decennale di quello storico trionfo: gli americani le hanno organizzato un’esibizione sul centrale. Sono riaffiorate le emozioni?
«E che emozioni… Prima di entrare avevo i brividi e lo stomaco chiuso: è stata la mia vita per vent’anni. Non sono una che piange spesso, soprattutto in pubblico (infatti durante la premiazione non mi scese una lacrima) però questi dieci anni sono stati così pieni di cambiamenti ed equilibri stravolti che oggi mi pare di raccontare l’esistenza di un’altra!».
Brindisi, via Ciciriello. Zia Elvy tennista, papà Oronzo presidente del Tennis Club. La racchetta nel destino.
«Riguardando indietro, mi rivedo bambina. E mi specchio nello sguardo delle mie figlie, Farah e Flaminia; il più grande è un maschietto, Federico. Ci assomigliamo tanto. Sono bimbi pieni di desideri e sogni. Io ho lottato tanto per ottenerli: sono molto fiera di tutto quello che ho fatto».
Di cosa, in particolare?
«Tornare a New York mi ha fatto riconnettere con me stessa. Il giorno in cui ho vinto ero una giovane donna con le idee chiare. Ho sempre avuto desiderio di famiglia e avevo incontrato il fidanzato che mi permetteva di realizzarlo, Fabio Fognini. Inoltre, fisicamente, mi sentivo un po’ arrivata: ogni giorno mi svegliavo con un dolore diverso. Ogni tanto mi chiedevo: perché sono qui? Quando inizi ad avere questi pensieri, significa che qualcosa dentro di te si è rotto. Non ero più cattiva come avrei dovuto essere».
Nove mesi dopo si sposerà, infatti. E adesso suo marito Fabio è un ballerino del cast della nuova edizione di «Ballando».
«Fla, cosa faccio, mi ha chiesto. Vai, gli ho detto: così la gente scoprirà il vero Fognini. Ha una parte che nessuno conosce, fatta di grande umanità. Lui ha chiuso la carriera a Wimbledon, con un match pazzesco con Alcaraz: il centrale gli ha riservato un’ovazione. Smettere dopo una vita scandita dagli impegni, può farti mancare la terra sotto i piedi. Le giornate diventano lunghissime, c’è il rischio di abbrutimento, di sentirsi vuoti. Ballando arriva nel momento giusto. Fabio è un agonista: non gli piace perdere! Quando chiudi col tennis ci iscriviamo a un corso di ballo, l’ho sempre punzecchiato. Tu sei pazza, mi rispondeva. E guarda come è andata a finire…».
Le intemperanze in campo di Fognini l’hanno mai messa in difficoltà?
«Ognuno ha il suo percorso. E Fabio non ha nulla da farsi perdonare. È un finto bad boy dal cuore d’oro che ogni tanto si è nascosto dietro atteggiamenti fastidiosi, ma ha sempre dato tutto, in Davis come nei tornei. Il gran finale a Wimbledon è stato la sua ricompensa».
La sfida con Roberta Vinci a New York ha impedito a Serena Williams di realizzare il Grande Slam e ha interrotto il dominio dell’americana.
«All’epoca non vidi la partita tra Robi e Serena: vinsi la mia semifinale con la Halep, e me ne andai. Recentemente, in una notte insonne per la febbre dei bimbi, mi sono gustata tutta la replica. E mi sono resa conto che anche Serena, la più forte di tutte, ha le sue fragilità. In quella circostanza, venne divorata dalla paura. Oggi lo definiremmo un attacco di panico: era totalmente bloccata e Roberta, che giocò un gran match, fu brava ad approfittarne».
E così, le due bambine pugliesi cresciute insieme, diventavano protagoniste assolute a New York.
«Il premier Renzi arrivato con l’aereo di Stato, Malagò, le attenzioni, le pressioni… Incredibile. Ero certa di avere un vantaggio su Roberta: la conoscevo troppo bene. Sapevo, soprattutto, che quella era la mia ultima chance. Poteva diventare il giorno più bello della mia carriera o la delusione più atroce. Trascorsi la vigilia vagando senza meta per Manhattan, tra mille tormenti. Poi andai a cena sotto l’albergo con il mio team: eravamo tre persone, non le 10-15 che oggi compongono i clan dei giocatori. Ragazzi, io non ce la posso fare, piagnucolai. Massì che ce la fai, mi rispose il coach. Ed eccomi qui».
Ha conservato dei cimeli?
«Tutto. La racchetta e la maglia dell’Open Usa sono a casa, a Milano: vorrei farci un quadro. La coppa è a Brindisi, dai miei. Papà la tiene come una reliquia: la fa vedere a chiunque ma nessuno è autorizzato a toccarla».
E Roberta Vinci, l’altra metà di questa storia, la sente ancora?
«Ma certo, ci vediamo spesso da me per un caffè, come il giorno della finale».
Prendeste il caffè insieme prima di affrontarvi per uno dei titoli più prestigiosi?
«Un’oretta prima di scendere in campo, nel ristorante dei giocatori. Lì accanto c’era Boris Becker, all’epoca coach di Novak Djokovic. Quando vide la scena, non voleva crederci. Bocca spalancata, occhi sbarrati… Tra amiche d’infanzia, caro Boris, si fa così».
25 agosto 2025 ( modifica il 25 agosto 2025 | 07:27)
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