Introduzione di Nanni Cobretti

È successo di nuovo! Sono stato alla cantera di Val Verde – rinomata per lanciare tanti giovani, per di più giù da una rupe – e ho deciso che i tempi erano maturi per promuovere un nuovo redattore. E che esemplare che vi ho trovato: giudice, giuria, boia, e pure coreografo! Date un caloroso benvenuto a Dredd Astaire.

Non lo direste da quell’espressione costantemente contrita, ma Alex Garland è un tipo molto interessato alla violenza. Ecumenicamente interessato alla violenza.
La violenza dei podisti (28 Giorni Dopo), la violenza verso donne e animali (Men), alla violenza verso Dio (Devs), alla violenza dei Tech Bro (Ex Machina), alla violenza dei repubblicani (Civil War), e prossimamente alla violenza di gamer e appassionati di fantasy (Elden Ring). Noterete anche un secondo fil rouge – una sottile linea rossa se volete (wink wink): la fascinazione verso i gonzi che questa violenza la esercitano.
Accortosi che nelle cose migliori di Civil War figurava quella categoria che ama vestire di verde e sfoggiare mitragliatrici – persone note come soldati -, Garland asseconda il suo kink e si approccia al consulente militare, stuntman e soprattutto veterano dei Navy SEAL Ray Mendoza con un’agenda molto chiara: prendere per un braccio il war movie hollywoodiano – e piegarglielo dietro la schiena.
Mendoza mette sul piatto la cosa piú preziosa che può offrire: la storia della sua missione più traumatica e simbolica. Garland invece ci mette il mestiere e la  prospettiva di pragmatico civile anti-guerra e left-wing. Ma ossessionato dalla violenza.
E dai gonzi.
Sigla!

Warfare è sostanzialmente i primi venti minuti di Salvate il Soldato Ryan meets The Hurt Locker meets American Sniper. Ma c’è di più.
È il 2006, Obama stava ancora falsificando il certificato di nascita e Bush non sapeva ancora cosa volesse dire “Goldman & Sachs”. In Iraq, la guerra continua in uno dei suoi momenti più cruenti, la seconda battaglia di Ramadi.
Dopo un watch party testosteronico di rito di Call on Me di Eric Prydz, il platone Alpha One di Navy SEAL occupa una villetta nei sobborghi della città irachena così da supportare un’operazione dei Marines, di fatto prendendo in custodia – leggasi, rapendo – le due famiglie che vivono nell’edificio. Tra i soldati, c’è un giovane Ray Mendoza – proprio lui.
Il mattino successivo, i SEALs capiscono che il vicinato li ha ampiamente scoperti, che hanno perso il supporto aereo per coprirsi la fuga, e che devono vedersela da soli contro una guerriglia violentissima, il panico di due feriti gravissimi da curare e le resistenze della base di inviare ulteriori team di soccorso.

“… ma che te lo dico a Warfare!”

L’approccio di Warfare non è innovativo nelle intenzioni, ma di rara efficacia esecutiva, in quanto ossessivamente fedele alla propria premessa stilistica e strutturale.
Tutti i 95 minuti del film si basano su un ricordo di Mendoza e dei suoi compagni di brigata. Al netto delle costrizioni del linguaggio cinematografico e dei dettagli ricreati in sceneggiatura (dialoghi in primis), ogni evento rispecchia quanto più fedelmente possibile quegli stessi ricordi – persino quelli in cui questi SEALs restano per ore parcheggiati in un salotto a prendere appunti, fanno minchiate tattiche, o maltrattano casualmente la famiglia irachena a cui hanno sequestrato casa.
Il patto tra pubblico e war movie è rinegoziato: se bisogna tener fede a questi ricordi (e a quanto siano intrisi di trauma), ogni dispositivo retorico deve saltare. Non ci sono lirismi in senso classico, punti di vista che guidano l’Io giudicante del pubblico, dispositivi/automatismi di sceneggiatura, scorciatoie ad uso e consumo della digeribilità del pubblico.
Siamo a un punto intermedio tra direct cinema, cinéma vérité e documentario: un documentario di finzione, forse? Un fintario di documinzione?

“E poi lì ci infiliamo la cinepresa”

Il punto di vista è soggettivo, la storia è un episodio piccolissimo di una guerra enorme, ma si guarda a qualcosa di universale: il rapporto tra uomini, violenza e guerra.
E parlavo di ossessione. Garland e Mendoza, ligi alla forma manco fossero il Neorealismo, Dogma 95 o Gordon Willis che cazzia Coppola messi insieme, mostrano a ogni passo il loro rigetto per ogni finzione romanzata. La cinepresa sta sotto la linea dello sguardo e punta leggermente verso l’alto, in posizione d’assalto chinata, quasi ad affiancare i soldati in avanzata.
È un bottle movie – la cinepresa esce raramente da quella villetta maledetta. Ogni sguardo all’esterno è filtrato da un mirino. L’unico punto di vista dall’esterno è un laptop con le immagini satellitari, un contrappunto sarcastico alla visuale indifferente delle gerarchie di incompetenti che hanno abbandonato questi ragazzi per timore di sprecare risorse, e che bisogna ingannare per ottenere aiuto.
Anche il suono è saturo e impietoso, testa la sopportazione del pubblico: orecchie che fischiano, sparatorie a pieno volume, silenzi coi cani che abbaiano, undici minuti quasi consecutivi di Joseph Quinn che urla di dolore (e non perchè stia prendendo fuoco). E non c’è nemmeno l’alibi di una colonna sonora.
Il risultato è contemporaneamente di intorpidimento e di esaurimento nervoso.

“Fiamma!”

Garland e Mendoza non si interessano molto ai personaggi – sono dei gonzi, signora mia! Non dilatano né comprimono il tempo del racconto per farceli conoscere meglio. Non distolgono lo sguardo quando non dovrebbero interessarci. Eppure non sono indifferenti. Quando la tensione si affila e diventa insopportabile, finiamo per desiderare un lieto fine per loro, che possano tornare a pornacci e red bull nel loro trailer in Oregon. E non per altro. Perché sono giovani, per la loro mascolinità spesso goffa e gretta.
A questo ritratto del soldato da giovane su misura di veterano, i due registi aggiungono dimensioni totalmente anti-eroiche: immaturità, incompetenza, resa alla paralisi dell’ansia e dello shock.
La vera domanda è un’altra. È una formula di assoluzione, in virtù di circostanze enormi? O è la condanna poetica per aver scelto di andare a fare gli assassini con la leggerezza con cui oggi si comprerebbero un Rolex dopo aver visto un TikTok? O c’è qualcos’altro che prescinde il singolo?

“Da qui nessuno può accorgersi che non sono Cooper Hoffman”

Nell’ultimissima scena, il film sembra fare un passo oltre i ricordi e il punto di vista collettivo dei SEALs. Si concede ai civili e agli “invasi”, alle famiglie che vivevano nell’abitazione ormai in macerie. Penso che l’immagine parli abbastanza chiaramente di cose che vedete quotidianamente, a un’app o due più di distanza.
Ma no. Il film non finisce qui.
Warfare continua. Svela il dietro le quinte del film e la comparsata sul set di alcuni membri del platone reale. Poi chiude, con l’ultima trappola per tropi: nel classico side by side tra attore e persona reale, i volti delle foto originali sono quasi sempre volutamente sfocati.
Scomparsa l’ultima immagine — una foto di gruppo del cast, con Cosmo Jarvis e la sua controparte reale che mostrano orgogliosamente il dito medio alla camera — appare un ringraziamento dal retrogusto aglioso di propaganda:

Thank you to Bravo company, 1-26 Infantry “Bushmasters” for always answering the call.

Il prezzo di sangue, traumi, shock, sofferenza pedissequamente ritratto per novanta minuti risolto in delle gran pacche sulle spalle. Un riconoscimento di questo tipo non si limita a riconoscere sacrificio e fedeltà contro ogni difficoltà: finisce per confondere le acque.
Allora, a cosa sono serviti, qual è stato il senso di questi tormentati e faticosi e tesissimi novanta minuti? Non penso solo vedere Cosmo Jarvis con i baffi e un Michael Gandolfini incredibilmente slapstick.
Il pensiero rimbalza alla primissima scena, al rituale ormonale di quel video musicale soft-porn con cassa dritta galvanizzante. Un’Ultima Cena di gonzi gonfi di testosterone, al culmine di arrapamento, infantilismo e letalità, che si danno la carica in vista dell’incombente momento in cui andranno a dare la morte a qualcuno.
Quel ringraziamento non è solo tone deaf e subdolamente militarista. Dice, senza alcuna ironia, “ragazzi, grazie e complimenti ancora una volta per avere scelto di andare ad ammazzare gente”.

“Forse abbiamo pestato un merdone”

DVD-quote:

«Crederete che i soldati sappiano scrivere.»
Dredd Astaire, i400calci.com

>> IMDb | Trailer