PADOVA – Samuel Silvestrin, padovano classe 1988, è un artigiano che ha scelto di vivere lavorando il legno, tra falegnameria e scultura. È autore di due opere alla Villa di Peraga (Vigonza), di un’altra al parco Fistomba e ha partecipato a Urbarte, il progetto che ha disseminato sculture tra Padova e Venezia. La sua è una storia in controtendenza.
APPROFONDIMENTI
Da dove nasce il suo percorso?
«In realtà sono partito da tutt’altro: ho studiato da geometra. Già allora un professore mi diceva che avevo sbagliato scuola, che ero “un artista”. Dopo il diploma ho fatto il praticantato e l’esame da geometra, ma nel 2008, con la crisi del mattone, il lavoro era pochissimo. È stato allora che ho conosciuto mia moglie: suo padre aveva una falegnameria e mi ha chiesto una mano. E anche lui, dopo aver visto un po’ come lavoravo, ha iniziato a dirmi che la mia strada era quella della scultura, che mi serviva un maestro. E mi ha aiutato a trovarlo. Ora lavoro come artista ma continuo anche in falegnameria».
Chi l’ha accompagnata nella formazione come scultore?
«Mio suocero, come dicevo, mi ha guidato nei primi passi in questa ricerca. Ho iniziato con Roberto Tonon, allievo di Mauro Corona. E con lui ho fatto otto anni di studio: esercizi, figure classiche, animali, mani, volti. È stato un percorso duro ma bellissimo. Poi ho sentito il bisogno di camminare con le mie gambe e ho iniziato a partecipare ai simposi, quei raduni di scultori dove si lavora insieme su un tema e ci si confronta. Non sono gare, come spesso si pensa: sono scambi di esperienze, di tecniche, di idee. Nel 2018 mi sono messo in proprio».
Che cosa le chiedono i suoi committenti?
«Dipende molto. A volte mi chiamano perché hanno un albero in giardino da trasformare. Succede spesso con alberi pregiati come il noce, il cedro o il rovere: in passato i genitori li piantavano con l’idea che un giorno sarebbero serviti per costruire un bel mobile per i figli, magari una camera da letto. Poi la vita fa il suo corso, e quell’albero non viene tagliato per fare un mobile ma per altre esigenze. E lì scatta l’idea: perché non trasformarlo in un’opera d’arte?».
Qual è il suo rapporto con gli alberi da cui nascono le sculture?
«Lo scultore non va a tagliare gli alberi. Io lavoro solo su tronchi già abbattuti, caduti per malattia o pericolosità, o colpiti da eventi naturali. Un albero sano va rispettato: ci dà ossigeno e vita. Se mi chiamano per abbatterne uno solo perché “dà fastidio”, io mi rifiuto. Le mie opere vogliono essere una seconda vita per quel legno, non la causa della sua fine».
Cosa guida la sua ispirazione?
«Spesso è la vita quotidiana. A volte una notizia, un’emozione forte, un lutto o una gioia. Altre volte la musica, che ho sempre nelle orecchie quando lavoro: per me scolpire e ascoltare sono due passioni che si intrecciano. Poi ci sono i luoghi: se realizzo una scultura in uno spazio pubblico, studio la storia del posto per creare un’opera che abbia senso lì, che dialoghi con il territorio».
A cosa si sente più legato tra i suoi lavori?
«Sicuramente un fauno in noce, piccolo ma con un valore affettivo enorme. Poi diversi altri, durante il Covid ho scolpito molto: tra le opere ci sono un “medico della peste” e un busto ispirato a reperti storici, opere a cui tengo perché ognuna porta con sé il momento in cui è nata: gioia, dolore, ricordi. Per questo a volte non hanno prezzo, alcune le considero solo per me. Non le venderei mai».