La dimostrazione
plastica che tutti gli italiani abbiano pagato e stiano pagando i compensi per
copia privata, il più delle volte inconsapevolmente, sta nel fatto che una
delle categorie di prodotti assoggettati sia lo smartphone. Proprio quello
smartphone che oramai tutti hanno in tasca e di cui in Italia si vendono circa
tredici milioni di pezzi all’anno.
Infatti, il compenso
per copia privata sugli smartphone si paga sin dal 2010, introdotto dall’allora
ministro Bondi: all’epoca erano 90 cent per ogni smartphone. Oggi si paga 6,9 euro
cadauno, un “aumentino” del 760% in 15 anni: paga chi importa lo
smartphone ma alla fine, ovviamente, ricade tutto sull’utente finale,
appesantito da IVA e ricarico dell’intera filiera nazionale.
Ebbene, pare che non
basti: gli aventi diritto hanno chiesto al ministro della Cultura di riadeguare
le tariffe, ovviamente aumentandole ulteriormente. Gli smartphone, anche per il
numero di pezzi coinvolti, rappresentano una delle “cassaforti” della
raccolta dei compensi per copia privata (stimiamo un’ottantina di milioni di euro di raccolta) e così si è pensato non solo di
aumentare i compensi ma di allargare di molto la soglia di memoria oltre la
quale il compenso diventa fisso.
Ecco le tariffe attuali a confronto con quelle che dovrebbero entrare in vigore nel “2025”, se l’opinione pubblica non farà abbastanza rumore.
Taglio
Unità di misura
2020
2025
Aumento %
In pratica, uno smartphone entry level da 128 GB quindi pagherebbe già di più rispetto al massimo attuale, 7,36 euro contro i 6,9 massimi e i 6,2 di oggi per quel taglio. Uno
smartphone da 256 GB (per non spingersi oltre) pagherebbe più di 8 euro. Per
questo motivo promuoviamo e sosteniamo la campagna “Stop Copia
Privata”, che chiediamo a tutti i nostri lettori di condividere, a partire dalla diffusione del nostro video e di questo articolo.
Cos’è il diritto di copia privata e perché si pagano i compensi alla SIAE sugli smartphone?
Ora, la domanda che
sorge spontanea è cosa sia il diritto di copia privata, che limiti abbia e
perché si debba pagare il compenso per copia privata. In pratica, i cosiddetti
“aventi diritto”, cioè autori, editori, interpreti e discografici di
opere musicali e cinematografiche (solo quei diritti d’autore, non gli altri),
concedono agli utenti, nel rispetto delle misure di protezione, di effettuare
una copia privata dei contenuti legittimamente posseduti. Il riferimento chiaro
è all’epoca delle audiocassette e delle copie che tutti facevano per esempio
per potarsi in macchina i propri dischi preferiti; oppure l’era delle VHS, in
cui si registravano su cassetta film passati in TV che probabilmente poi non si
sono mai più rivisti.
Oggi la copia
privata praticamente non esiste più, è un diritto concesso ma non esercitato
dalla maggior parte degli italiani. In particolare sugli smartphone, non c’è
più copia privata, non perché non venga fruita musica o audiovisivo sugli
smartphone, ma perché si fa, per scelta e concessione degli stessi
discografici, quasi solo streaming, fattispecie largamente prevalente se non
addirittura totalitaria.
Nel 2012 il dott.
Blandini, allora direttore generale della SIAE e oggi presidente della
Fondazione Copia Privata Italia, in audizione alla Camera, nel difendere a
spada tratta i compensi per copia privata, tuonava che “Senza questo
pensiero creativo e questi investimenti (riferimento all’attività degli autori
e dei discografici, ndr), i nostri tablet e i nostri computer sarebbero pezzi
di latta senz’anima”. Questo adagio è andato avanti per anni nella
narrazione degli “aventi diritto”, malgrado non fosse assolutamente
vero allora e men che meno oggi, in piena era dello streaming. Gli smartphone hanno un’anima gigantesca anche senza musica e senza film, soprattutto senza musica e film posseduti legalmente e copiati sullo smartphone.
Lo streaming, a
pagamento o gratuito, non fa “copia privata”
Prendiamo la musica,
per esempio: i discografici musicali sono contenti della nuova piega che ha
preso il mercato, con una pirateria oramai trascurabile e lo streaming che è
diventato prevalente. Citiamo Enzo Mazza, presidente di FIMI, l’associazione
confindustriale delle major discografiche, che si espresso così in
un’intervista: “Il mercato discografico va bene. Il settore è guidato
dallo streaming premium, che continua a crescere in maniera consistente. Il
totale dello streaming è l’82% del mercato, con Instagram, Facebook e Tiktok
che stanno generando nuovi ritorni”. Dati positivi quelli pubblicati da
FIMI per il 2024, che addirittura ci raccontano di come gli acquisti di musica
liquida siano oramai l’1% dei ritorni totali, contro il 67% del solo streaming:
15 anni fa praticamente non esisteva. I supporti fisici si fermano al 13% dei
ricavi totali. E la possibilità che si copino copie dei CD sui propri
smartphone onestamente ci pare una fattispecie residuale se non addirittura
estinta.
I dati del business musicale in Italia secondo il Rapporto FIMI 2024
Lo streaming non fa
“copia”, si fruisce al volo. E la giurisprudenza si è già espressa in
maniera chiara, stabilendo che la cache che lo smartphone fa per eseguire lo
streaming, non è una “copia privata”, ma si tratta solo di una copia
tecnica finalizzata alla fruizione di un altro diritto disposto dagli autori e
dagli editori, ovverosia l’ascolto in streaming. Che tra l’altro largamente si
paga, grazie agli abbonamenti a Spotify e simili. Poi, per loro libera scelta,
alcune le case discografiche pubblicano liberamente su Youtube gran parte del
proprio catalogo e delle proprie novità per ottenere visualizzazioni e quindi
ritorni pubblicitari. Infine, sempre i discografici e la SIAE incassano dai
diritti d’autore e dai diritti connessi dalle piattaforme, come Instagram e
TikTok, per l’utilizzo di musiche coperte da diritto d’autore negli user
generated content. Insomma, paghiamo di già, direttamente o indirettamente.
Perché dovremmo pagare ancora? Il sospetto è che lo smartphone sia assoggettato
solo perché nessuno può più ragionevolmente farne a meno.
Copia Privata: il compenso SIAE non ha ragione di esistere. Il 97% degli italiani oggi usa lo streaming
Lo stesso si può
dire dell’altra metà dei percipienti, autori, interpreti e discografici
dell’audiovisivo, cinema e serie. Secondo Univideo “Il supporto fisico
rappresenta una nicchia di mercato che si potrebbe definire come “raffinata”.
Nel 2024 le vendite hanno registrato un’ulteriore flessione, in linea con la
tendenza globale di contrazione del fisico”. Parallelamente, in
un’istruttoria sul mercato dell’audiovisivo, l’authority antitrust ha osservato
come lo streaming abbia oramai più di 25 milioni
di utenti in Italia nel 2023 e rappresenti la modalità di fruizione
dominante. Tanto più sullo smartphone, di cui la memoria non basta mai, per
colpa prevalentemente delle foto scattate e dei video che arrivano via
Whatsapp: chi copierebbe ragionevolmente un film su uno smartphone?
Assurdo: pagheranno
la SIAE anche gli smartphone ricondizionati
Nella bulimia da
incassi compulsivi, quello che abbiamo chiamato “bancomat di autori e
discografici”, la novità 2025 (oltre all’adeguamento delle tariffe)
sarebbe anche l’assoggettamento dei ricondizionati: in pratica chi ricondiziona
e rivende sul mercato quello che di fatto è un bene usato, deve pagare di nuovo
il compenso per copia privata. Evidentemente, agli aventi diritto è caduto
l’occhio sul mercato dei ricondizionati, che è in crescita, e, non volendo
arretrare di un millimetro sui loro incassi, hanno pensato di ricomprendere
anche questa fattispecie.
Cioè – lo ribadiamo
per essere più chiari -, addirittura si pretenderebbe una doppia imposizione
sullo stesso bene fisico solo perché è stato compravenduto come bene usato. Un
meccanismo che, tra l’altro, ci pare anche fuori dalla ratio della legge e dai
margini operativi concessi al ministro della Cultura. Insomma, sembra di
trovarsi proiettati nella famosa gag di Troisi e Benigni in “Non ci resta
che piangere”, a ripagare “un fiorino” a ogni passaggio al
casello: neppure Trump nei suoi peggiori deliri sui dazi è arrivato a
ipotizzare tanto.
Come
sostenere la campagna Stop Copia Privata
Sostenere la
campagna Stop Copia Privata è molto semplice: no a “donazioni” o a
raccolta di firme, ma semplicemente sensibilizzazione dell’opinione pubblica.
La maggior parte dei cittadini, infatti, non sa che sta pagando e per cosa. La nostra “semplificazione” – parlare di “stop copia privata” e non di “stop ai compensi per copia privata” – è necessaria per arrivare al numero maggiore di persone con un argomento che sembra tecnico ma che riguarda tutti i cittadini. Se si cancella il diritto per copia privata (in UK per esempio non esiste), vengono meno anche i relativi compensi, cosa che manda addirittura nel panico gli aventi diritto.
Per
questo motivo ti chiediamo semplicemente di diffondere i nostri contenuti, i
nostri video riguardanti la campagna. E, meglio ancora, creare dei tuoi
contenuti, da diffondere ai tuoi contatti e sui tuoi canali social utilizzando
il logo che è scaricabile qui sotto (e che, a scanso di ogni equivoco, non
riporta il logo di DDAY). Grazie per il tuo supporto.