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Il discorso fatto da Mario Draghi il 22 agosto al Meeting di Rimini ha generato molte attenzioni soprattutto per la nettezza con cui Draghi, ex presidente del Consiglio e della Banca centrale europea, ha denunciato i limiti politici dell’Unione Europea. «Per anni l’Unione Europea ha creduto che la dimensione economica con 450 milioni di consumatori portasse con sé potere geopolitico e potere nelle relazioni commerciali internazionali. Quest’anno sarà ricordato come l’anno in cui questa illusione è evaporata», ha detto Draghi nell’incipit del suo discorso, evidenziando la sostanziale irrilevanza dell’Unione sulle principali questioni internazionali, dalla guerra in Ucraina a quella a Gaza, e la sua debolezza nel confronto con altri grandi paesi, dagli Stati Uniti alla Cina.


Non è la prima volta che Draghi usa questi toni e questi argomenti. Soprattutto da quando ha dismesso ogni carica pubblica, dopo la fine del suo governo nell’ottobre del 2022, l’aspetto più ricorrente nei suoi interventi ufficiali o nelle sue interviste è stato proprio questo: un continuo sollecitare l’Unione Europea a progredire e a fare riforme su alcune questioni di grande rilevanza economica, finanziaria, politica e militare.

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Sono perlopiù le stesse priorità indicate nel suo rapporto sulla competitività europea: la creazione di un mercato unico, con la riduzione o l’abolizione delle barriere burocratiche e doganali interne; una maggiore sintonia e cooperazione tra le principali aziende europee nei settori di maggiore prospettiva di sviluppo nei prossimi decenni, come il digitale e l’intelligenza artificiale; l’armonizzazione delle industrie della difesa e degli affari esteri di ciascun paese membro.

Il tutto con la premessa di un bilancio federale e l’emissione di debito comune, e con una severa condanna dell’indolenza, dei ritardi e dell’inconcludenza che ha caratterizzato i processi decisionali dell’Unione negli ultimi anni.

Sono posizioni che Draghi ha sostenuto in modo non sempre univoco e cristallino, come lui stesso ha ammesso, ma in maniera sempre più netta e coerente nell’ultima fase della sua carriera. Già da presidente della BCE si trovò a polemizzare in più occasioni con la direzione che l’Unione, soprattutto sotto la guida della Germania di Angela Merkel, stava seguendo dopo le crisi finanziarie del 2008 e del 2011. Anche il suo famoso «whatever it takes», la dichiarazione del febbraio del 2011 che lo rese celebre, era per certi versi una netta presa di posizione contro governi e banchieri del Nord Europa, a partire proprio dalla Germania.


I contrasti che Draghi ebbe in quegli anni con l’allora presidente della Bundesbank Jens Weidmann e con la stessa cancelliera Merkel avevano in sé tutte le ragioni che lo hanno portato poi a nutrire dubbi sulle priorità che l’Unione si è data negli ultimi vent’anni. E si spiega così che uno dei suoi primi interventi al Consiglio Europeo da capo del governo italiano, nel marzo del 2021, ebbe grande risonanza. Draghi, in quella sede, contestò nettamente la mancanza di una vera unione bancaria e fiscale, di un mercato unico dei capitali, di un bilancio federale e dunque l’emissione di debito comune (i famigerati eurobond), commentando in modo anche un po’ irridente la vacuità dei dibattiti delle istituzioni europee intorno alla natura dell’euro.

Ma è soprattutto dopo la fine del suo mandato da presidente del Consiglio che Draghi ha inasprito e intensificato questi suoi interventi. Lo ha fatto per esempio nel novembre del 2024, durante un Consiglio Europeo straordinario convocato proprio per discutere il suo report sulla competitività: e in quell’occasione Draghi segnalò come la recente vittoria di Donald Trump negli Stati Uniti rendesse ancor più urgente agire. «Credo che quello che l’Europa non può fare è posporre le decisioni», disse.

Lo stesso senso di urgenza caratterizzò anche il suo discorso durante un’audizione al Parlamento Europeo riunito in sessione plenaria, nel febbraio del 2025. Ma qui i toni furono assai più duri. Qualche settimana dopo reiterò queste sue critiche durante una sua audizione al parlamento italiano. Denunciò l’eccesso di regolamentazione europea, che porta alla creazione di dazi e barriere interni all’Unione, e di nuovo la lentezza dei paesi membri nel prendere le decisioni importanti sulle questioni fondamentali. «Abbiamo un mercato unico per i dentifrici, non ce l’abbiamo per l’intelligenza artificiale», disse sintetizzando le insensatezze di certe norme europee.


Il discorso tenuto al Meeting di Rimini sta un po’ in questa lunga scia: è l’ennesima denuncia di Draghi. Dal suo punto di vista, si tratta di una critica che va intesa in senso costruttivo: segnalare le mancanze dell’Unione è un modo per ribadire l’urgenza delle riforme, per spronare l’Europa a non accontentarsi di esistere e di celebrare le proprie conquiste del passato, ma a rendersi pronta per affrontare le questioni del presente e del futuro. È una critica europeista all’Europa, insomma.

È un approccio per certi versi originale, quello di Draghi. Da emblema globale dell’europeismo, Draghi è anche uno dei più acuti critici dell’Unione; da uomo delle istituzioni europee, se la prende spesso con le storture burocratiche e normative di quelle istituzioni; da tecnico che ha un rapporto piuttosto diffidente con la politica, si augura con convinzione che l’Unione diventi più politica e meno tecnocratica; da banchiere austero percepito come un esponente del cosiddetto “establishment di Bruxelles”, è un fautore, soprattutto negli ultimi tempi, di un maggiore intervento pubblico dell’Unione nell’orientare e favorire gli investimenti virtuosi nel continente.

Nell’intervento di Rimini, Draghi si è soffermato su questo suo orientamento culturale, ricordando come provenga da un ambiente ben poco europeista e scherzando sul fatto che nella sua tesi di laurea, nel 1970, scrisse «che la moneta unica era una gran sciocchezza». Ha definito il suo come un «europeismo molto coi piedi per terra», ovvero «un europeismo molto pragmatico che è diventato nella storia anche più di maggior respiro, più politico, ma non è un europeismo che parte dai grandi principi della visione europea».

Questo spiega in parte perché Draghi è trasversalmente apprezzato – in modo più o meno strumentale – dalla politica. Ciascun partito o corrente di pensiero esalta alcuni aspetti dei suoi discorsi, ignorandone altri: la destra sovranista elogia il Draghi censore delle storture burocratiche europee, tralasciando che la premessa indispensabile per l’Europa più politica di cui parla Draghi è un’ulteriore cessione di sovranità da parte dei singoli Stati nazionali, cioè la negazione di molte delle convinzioni dei sovranisti; la sinistra apprezza il Draghi keynesiano, cioè che chiede investimenti pubblici, ma Draghi chiede anche di discernere tra «debito buono» e «debito cattivo», e cioè di evitare spese assistenziali improduttive o bonus vari per privilegiare investimenti improntati a una maggiore produttività.

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Il risultato, spesso un po’ surreale, è che ogni volta che Draghi tiene i suoi interventi pubblici sia partiti di destra che di sinistra trovano appigli per usare le sue parole al fine di consolidare le proprie ragioni, spesso con tesi del tutto opposte.