La cosa miracolosa di BoJack Horseman era il modo in cui la serie animata di Netflix riusciva a collocare il materiale più cupo e malinconico accanto a esplosioni di pura, concentrata assurdità. Sì, era la storia di una celebrità clinicamente depressa, alcolizzata, eternamente deludente e ormai sul viale del tramonto (il cavallo-uomo del titolo). Ma c’era spazio anche per personaggi ridicoli come Vincent Adultman, tre bambini impilati uno sull’altro sotto un trench che dicevano cose tipo: «Oggi sono andato al mercato azionario! Ho fatto un affare!». In un episodio BoJack poteva lasciarsi andare a una sbornia epica che finiva per causare la morte di uno degli ex bambini prodigio della sua sitcom anni Novanta; in un altro, il coinquilino Todd si ritrovava in una farsa erotica da porte che sbattono, culminata in una rissa in cui tutti erano ricoperti di lubrificante vecchissimo.
BoJack è stato creato da Raphael Bob-Waksberg e prodotto da Lisa Hanawalt. I due si sono scambiati i ruoli per Tuca & Bertie, un’altra serie con animali antropomorfi e un mix di tragico e assurdo. Ora collaborano di nuovo in Long Story Short, la serie animata di Bob-Waksberg. La commedia famigliare non ha né uomini-cavallo né donne-uccello, ma continua a mostrare l’impressionante capacità del duo di bilanciare malinconia estrema e deliziosa follia.
Long Story Short salta avanti e indietro nel tempo — arrivando fino agli anni Cinquanta e tornando fino ai giorni nostri — per raccontare la storia di una famiglia ebrea americana amorevole ma disfunzionale. La matriarca Naomi Schwartz (Lisa Edelstein) e il marito Elliott Cooper (Paul Reiser) hanno dato ai loro tre figli — Avi (Ben Feldman), Shira (Abbi Jacobson) e Yoshi (Max Greenfield) — il cognome portmanteau Schwooper. Naomi è manipolatrice, melodrammatica e passivo-aggressiva: quando lei ed Elliott litigano sull’organizzazione di un ricevimento con catering, si lamenta dicendo: «I Rosenberg non hanno mai fatto nulla di terribile come questa disposizione dei posti, eppure loro la sedia l’hanno avuta!». Elliott cerca solo di lasciar correre, peggiorando spesso le cose con la sua mancanza di assertività. Il figlio maggiore Avi è un critico musicale che prova a connettersi con la moglie Jen (Angelique Cabral) e la figlia Hannah (Michaela Dietz) condividendo con loro le sue canzoni preferite. Shira è un disastro maldestro che non ha mai davvero superato vari traumi d’infanzia e finisce per sposare Kendra (Nicole Byer), con cui mette su famiglia. E il figlio più piccolo, Yoshi, è impulsivo e facilmente distraibile, sempre in corsa da uno schema folle all’altro senza mai pensare alle conseguenze.
Vediamo i fratelli da bambini, adolescenti e in varie fasi della vita adulta e, di conseguenza, impariamo come essere cresciuti da Naomi ed Elliott li abbia plasmati fino a renderli le persone che sono oggi. Intravediamo perfino Naomi da bambina, così da comprendere meglio come sia diventata questa figura materna opinabile, difficile ma anche amorevole.
Bob-Waksberg e i suoi collaboratori conservano il loro notevole talento nell’inventare assurde gag comiche da affiancare al materiale più drammatico. Una delle tante carriere mancate di Yoshi è quella di gestore di un food truck a tema prosciutto, che finisce in un tamponamento venendo “schiacciato” ai lati da camion carichi di lattuga, pomodoro e pane (a suggellare perfettamente la gag visiva, Yoshi poi chiama Naomi e le dice: «Mamma, è successo di nuovo!»).
Taciuto nel sottotesto dell’“Hambulance” di Yoshi è il fatto che sia diventato un venditore di carni non kosher, in una famiglia che fatica a fare i conti con la propria identità ebraica. Naomi è concentrata sul mantenimento di tutte le tradizioni religiose, mentre i figli sono più ambivalenti; Kendra, che si è convertita, si sente più connessa spiritualmente di Shira. Nelle sue osservazioni sull’ebraismo culturale contrapposto a quello religioso, Long Story Short è la serie più apertamente dettagliata sulla vita ebraico-americana dai tempi di Transparent (una serie ormai rimossa dalla memoria collettiva per una varietà di motivi estranei al suo contenuto), mentre Bob-Waksberg trova modi affascinanti di rendere il particolare universale e l’universale particolare.
Lungo il percorso, Long Story Short offre straordinarie gag comiche “alla Rube Goldberg”, come una Shira adolescente che inavvertitamente si rende ridicola a un ballo scolastico, o la resa esilarante di una storia in cui Yoshi trova lavoro vendendo materassi che arrivano in una piccola lattina. E c’è anche un’ottima satira sociale, in particolare in un episodio ambientato nel 2021 in cui Avi deve affrontare i mille modi in cui il Covid ha mandato in tilt le menti delle persone. Ma non mancano nemmeno momenti riflessivi e commoventi su tradizioni, lutto, traumi infantili e sul modo in cui la famiglia possa essere al tempo stesso la cosa migliore e peggiore della tua vita.
Qualsiasi collaborazione tra Bob-Waksberg e Hanawalt è un evento degno di celebrazione. Basta fare molta attenzione quando si prepara il tableau dei posti.