Quando si parla di carestia, si immagina una realtà brutale e inconfutabile: corpi emaciati, fame diffusa, mortalità alle stelle. Ma carestia è anche – e soprattutto – una categoria tecnica, codificata da criteri precisi: consumo alimentare, stato nutrizionale, mortalità. Ed è qui che iniziano i problemi. Il nuovo rapporto dell’IPC (Integrated Food Security Phase Classification) pubblicato nell’agosto 2025 ha dichiarato che Gaza è a “rischio di carestia”. Un termine potente, che orienta le agende internazionali e muove l’opinione pubblica. Ma cosa dice davvero quel rapporto? E come è stato costruito?

Carestia a Gaza, crolla ogni accusa

La risposta inquietante è questa: i criteri tecnici dell’IPC, gli stessi che il report cita, smentiscono la tesi che a Gaza ci sia – o ci sia mai stata – una carestia vera. Secondo gli standard internazionali, per dichiarare una carestia conclamata dovrebbero esserci almeno 2 decessi per fame ogni 10mila persone al giorno. Applicati alla popolazione di Gaza, significa oltre 20mila morti in meno di un anno. Numeri abissalmente lontani dalla realtà. Persino Hamas – che da mesi gestisce il “Ministero della Salute” e i dati su cui si basa l’allarme – ne ha dichiarati 240 in 22 mesi. E tra questi, molti erano malati terminali, poi presentati come “vittime della fame”.

Il documento dell’IPC lo ammette: per sostenere il livello di emergenza dichiarato, servirebbero 1.400 morti alla settimana per denutrizione acuta. Ma non ci sono. Per esempio, la lettura più restrittiva non è confermata da alcuna immagine verificata. Perché carestia, in un mondo con migliaia di telecamere, non è solo misurabile: è visibile. E invece, da Gaza ci arrivano le stesse immagini da mesi: bambini con fragilità preesistenti, madri in condizioni buone, un contesto sanitario precario ma non devastato dalla fame. Un’anomalia che nessuno vuole guardare.

Due pesi, due misure: Gaza e Sudan

Il punto più grave, però, è un altro. Lo stesso ente, l’IPC, utilizza metodi completamente diversi a seconda del Paese. Nel Sudan, teatro di un conflitto devastante, il rapporto IPC copre il periodo ottobre 2024 – maggio 2025. E si basa su una mole ampia e scientificamente fondata di dati: 27 indagini SMART che misurano peso per altezza e MUAC (circonferenza del braccio), con criteri rappresentativi della popolazione; dati di mercato e prezzi alimentari forniti da organismi internazionali come il WFP; valutazioni multi-settoriali da parte di Ong indipendenti; dati di mortalità affidabili, triangolati da fonti come Medici Senza Frontiere e l’Università di Yale.

A Gaza, invece, tutto ciò non esiste. I dati utilizzati per l’allarme IPC si basano su: poco più di 1.000 interviste telefoniche (CATI); indagini “di follow-up” condotte da remoto su meno di 750 famiglie; campioni non rappresentativi, spesso provenienti da programmi nutrizionali già attivi; una metrica sola (il MUAC), meno precisa e potenzialmente sottostimante; nessuna indagine SMART. Nessuna misurazione diretta su scala ampia. Nessun dato solido sulla mortalità.

Non solo: alcune aree cruciali come Gaza Nord e Rafah non sono nemmeno classificabili, per mancanza di campioni validi. Una domanda ulteriore: come fa IPC a fare sondaggi telefonici in un posto nel quale le comunicazioni sono al collasso? Lo studio è randomizzato o i contatti li ha forniti qualcuno? Gli intervistatori come hanno verificato l’identità degli intervistati?

Il rapporto-fantasma dell’IPC è pieno di dati deboli: chi lo scrive

Per quanto sembri autorevole la fonte, ci sono dubbi sugli autori. Già a una prima verifica è saltato fuori che uno degli autori del rapporto IPC su Gaza è Andy Seal, senior lecturer presso l’University College di Londra. Ma anche – e questo è verificabile – attivista apertamente anti-israeliano, che fin da ottobre 2023 parlava di “genocidio” e “crimini umanitari”. Secondo UN Watch, è anche simpatizzante del regime iraniano e del movimento Houthi.

Il quadro che emerge è grave. Non solo i dati sono deboli, ma sono anche filtrati da una matrice ideologica. Una matrice che ignora sistematicamente le fonti israeliane (come il portale COGAT, che documenta ogni giorno i convogli di aiuti umanitari in ingresso a Gaza), e si affida invece al Ministero della Salute di Hamas. Proprio Hamas, che da mesi conduce una campagna informativa fondata sul binomio “fame = genocidio”.

La fame come arma

Nel frattempo, gli effetti reali di questo allarme infondato sono concreti: pressioni diplomatiche, campagne mediatiche, risoluzioni Onu, accuse alla Corte penale internazionale, sanzioni morali. L’obiettivo non è salvare vite, ma fermare Israele quando avanza verso le roccaforti di Hamas. Così la carestia non diventa un’emergenza da affrontare, ma un’arma politica da brandire. E Gaza, per la seconda volta in un anno, diventa il laboratorio perfetto per una guerra dell’informazione che utilizza la fame come leva.

E allora perché lo fanno? Perché Gaza non si misura come il Sudan. Perché lì i dati sono tecnici, e qui sono politici. Perché la parola “carestia” è come un titolo di giornale: genera reazioni, raccoglie fondi, crea indignazione. Anche quando i numeri dicono il contrario. Ed è questo, forse, il vero scandalo. Non la fame che non c’è, ma il modo in cui viene raccontata.

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Redazione