Mentre ci avviciniamo al settecentesimo giorno di genocidio, Israele sposta ancora più in fondo la linea dell’abisso. E lo fa sul versante della propaganda, cercando con mezzi sconcertanti di annientare il racconto dei fatti per esaltare la narrazione della menzogna. Difficile anche immaginarle, certe soluzioni narrative. Nel giro di tre giorni, prima abbiamo visto dieci influencer americani e israeliani accompagnati a Gaza.
All’interno di quella Striscia dove dall’inizio di questo furioso eccidio non è permesso l’ingresso alla stampa. Sono andati per raccontare la “verità” circa la distribuzione di cibo e aiuti, e siamo rimasti a bocca aperta vedendo gente che non ha alcuna dimestichezza con l’informazione e la sua correttezza girare sorridente sotto un elmetto per svergognare chi è attonito di fronte all’orrore. Poi abbiamo assistito quasi in diretta all’ennesimo massacro degli unici giornalisti che continuano a fare il loro lavoro a Gaza, ossia gli unici che lì possono aggirarsi perché lì sono nati: i palestinesi. Sono più di duecentosettanta quelli uccisi in questi mesi indicibili. Un numero record che da solo pretenderebbe una riflessione se anche non dovessimo inserirlo nel contesto di contro-narrazione messo a punto da Israele.
In effetti, nessuno scrittore di distopie potrebbe mai utilizzare il materiale che stanno offrendo in questi mesi gli stratagemmi di sistematica manipolazione della verità messi a punto dagli autori del genocidio. Nessuno potrebbe credere possibile che si arrivi a tanto e qualunque lettore riterrebbe la storia esageratamente fantasiosa. Ma la realtà supera sempre l’immaginazione e per questo essa non risulta credibile in letteratura. La strategia di comunicazione messa a punto da chi ripete che è un’invenzione la carestia e la fame, nega ogni responsabilità, ripete di continuo che uomini e donne uccisi sono terroristi o scudi umani, mette in discussione ogni numero, contesta la veridicità di un’immagine e arriva al punto di contraddire anche il parere scientifico di un medico che stila un certificato di morte, è una strategia talmente assurda e ridicola che si stenta a credere al suo successo. E invece di successo ne ha.
Si potrebbe chiamare in causa una volta ancora quel “genio” della comunicazione capace di spiegare che una menzogna, ripetuta all’infinito, diventa verità, ma in un certo senso non basterebbe. L’idea di colpire con un secondo attacco l’ospedale dove medici e paramedici tentano di salvare vite umane mentre giornalisti arrivano per raccontarlo, eppoi dire che si è trattato di un errore non può rientrare neppure tra le prese in giro più assurde e folli. È semplicemente la conseguenza dell’impunità completa che è stata concessa a Israele.
Questa è la storia da raccontare. Una storia molto lunga, lunga decenni, ma che, limitata al genocidio in corso, si struttura in due tempi.
Il primo, quello dei mesi iniziali, in cui era impossibile far circolare lo sdegno: i social mettevano nell’angolo i post riferiti all’argomento (tanto che per pubblicare anche una blanda riflessione era necessario ricorrere a tattiche ridicole) mentre la stampa occidentale si presentava come un monolite con rarissime eccezioni ovviamente considerate “di parte”. Era il tempo in cui si rischiava di essere criminalizzati e chi si permetteva l’uso di certe parole doveva prima dichiarare la propria lontananza dal terrorismo islamico. Poi è arrivato il tempo in cui anche le barriere degli algoritmi hanno ceduto alla marea del disgusto. Ma il silenzio dei primi mesi aveva ormai fatto il suo effetto e l’impunità era cosa acclarata.
Oggi sembra impossibile fermare il massacro. Nessun governo occidentale ha la forza delle grandi decisioni. E a giustificare tanto immobilismo c’è l’onda di un’opinione che accetta, crede e dà spazio alle menzogne più indecorose, con l’aggressività tipica di chi si diverte a spargere violenza in rete. È qui il trionfo della propaganda israeliana, la famosa hasbara, su cui investimenti cospicui hanno scommesso per far fuori ogni possibilità di informazione corretta. Perché nulla è più potente dell’incredibile. Soprattutto quando brilla di luce plumbea sul silenzio di chi è morto per quel mestiere straordinario di cui noi occidentali ci ritenevamo maestri: raccontare i fatti.