di
Paolo Mereghetti
Dobbiamo incrociare le dita e augurarci che le scelte di Barbera facciano centro, mettendo la sordina alle polemiche, perché un festival debole finirebbe per penalizzare ancora di più il mercato
Partiamo dai numeri. 91 lungometraggi di cui 21 in gara per il Leone d’oro: tra questi 6 diretti da donne, 5 di nazionalità maggioritaria italiana, 3 prodotti da Netflix, solo 4 extra Usa e Europa (da Cina, Corea del Sud, Taipei e Tunisia). Riusciranno a «offrire perplessità, seminare dubbi, nutrire interrogativi» come si augura Alberto Barbera, alla direzione numero 17, di cui 14 consecutive? La sua speranza è evidentemente anche la nostra.
Il cinema, e quello italiano in particolare, non viene da un anno esaltante: qualche alto (Özpetek e Genovese, poi Nunziante, Siani, Salvatores, Soldini, Andò. Avrò dimenticato qualcuno ma le dita di due mani sono fin troppe) e invece molti bassi. Per questo in molti guardano a Venezia sperando in un miracolo, quello di chi riesce a invertire una tendenza e riaccendere l’interesse del pubblico. Perché di questo si tratta: trasmettere quell’entusiasmo e quella passione che sole possono spingere a riempire le sale.
Il rebound post-pandemia, che aveva aiutato a sconfessare i profeti di sventura (pronti a giurare sulla definitiva morte del cinema) sembra affievolito. Per questo dobbiamo incrociare le dita e augurarci che le scelte di Barbera facciano centro, mettendo la sordina alle polemiche, perché un festival debole finirebbe per penalizzare ancora di più il mercato. Giusto rivendicare il dovere di essere «Mostra» ma dobbiamo ammettere che anche il glamour è importante (non volevo crederci, ma ho visto giovani presidiare il posto di fianco al tappeto rosso da ieri, un giorno prima dell’inizio). Poi ci sarà tempo per litigare sui verdetti delle giurie, per lamentarci di qualche delusione, sperando però che le belle sorprese siano più numerose.
26 agosto 2025
© RIPRODUZIONE RISERVATA